(PARTE PRIMA CAPITOLO NONO Pagina 434)

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“A un tratto le levatrici impallidirono, vedendo disperse le speranze di ricchi regali: dall’alvo sanguinoso veniva fuori un pezzo di carne informe, una cosa innominabile, un pesce col becco, un uccello spiumato; quel mostro senza sesso aveva un occhio solo, tre specie di zampe, ed era ancor vivo.”

 

La Sicilia italiana sta per nascere. De Roberto, come già scritto nell’Introduzione, riesce con una sua alchimia letteraria a generare un nuovo mostro con un effetto assolutamente cinematografico di tre storie in parallelo: la venuta alla luce dell’“ultimo” Uzeda, l’elezione a deputato del primo Uzeda rappresentante della nuova Sicilia italiana e infine l’unione tra il borghese Giulente e donna Lucrezia.

La Sicilia ha perso la sua dignità di nazione è ormai quell’isola di “gente incivile”, “rozza”, “violenta” e “sottosviluppata” “lontana, più africana che europea”, che i Piemontesi guardavano di sbieco.  Donna Chiara ha partorito un mostro e donna Lucrezia sposa un non nobile.

A questo punto la parola a don Blasco:

 “Ah,  razza  putrida  e  schifosa!  Ah,  porco  Viceré  che  la  creasti!…  Meglio  sarebbe  stato…»  (mettere  al  mondo  soltanto  bastardi,  era  l’idea  espressa  dalle  turpi  parole)  «piuttosto  che  generare questo nipotame sozzo e puzzolente!…”[1]

           Nelle pagine di questo tragico capitolo echeggiano due espressioni in particolare: Il Signore non ha voluto[2]; Il signore non volle[3] e rassegnazione, anche le levatrici videro disperse le loro speranze, questo a significare che il Popolo Siciliano non è più protagonista del proprio destino ma succube.

Il danno più infame e terribile che si possa fare ad un Popolo è annientare la speranza del futuro, tutto si può ricostruire, case, strade, fabbriche, far nascere figli, ma per farlo occorre la voglia, la volontà, mai la rassegnazione

Il pezzo anatomico[4] viene osservato dai propri genitori amorevolmente, è il prodotto più fresco della razza dei Vicerè,[5] mentre il Popolo acclama, l’insigne patriota, il primo deputato del collegio. La nuova forma del potere dei Vicerè! E fu proprio il Giulente ad aprire il balcone come se fosse a casa sua, è ormai cosa fatta la sua unione con donna Lucrezia. I tre punti si sono così congiunti. Qui la figura di Benedetto Giulente rappresenta il garante del popolo e come garante soprattutto, il traditore del suo liberalismo indipendentista venduto per la sua scalata sociale sposando una Uzeda e la sua futura carriera politica. In seguito nel romanzo scopriremo che quei trenta danari non lo ripagheranno affatto. Così spinge il duca D’Oragua a parlare, ma cosa dire? Qual è mai il contenuto della sua elezione? Gli suggerisce il Giulente:

“Dica  che  ringrazia  il  popolo  della  lusinghiera  dimostrazione…  che sente  la  responsabilità del mandato, ma che consacrerà tutte le sue forze ad adempierlo… animato dalla fiducia, sorretto…”[6]

              Allora esce un “Cittadini…” Non convincente tanto che il pubblico continua nel suo schiamazzo, bastò al Giulente alzare il braccio che come un maestro d’orchestra riesce a farlo zittire immediatamente, allora ecco prende lui la parola: “Cittadini!”

Tra gli applausi e gli evviva! Bendetto Giulente non a caso parla di  “sovrana  volontà  d’un  popolo divenuto padrone di sé… Cittadini! Il 18 febbraio 1861, tra i rappresentanti della nazione risorta noi avremo  la  somma  ventura  di  veder  sedere  il  duca  d’Oragua.  Viva  il  nostro  deputato!…  Viva l’Italia!…” [7] A questo punto è il momento del discorso del duca, quindi cominciò: “Cittadini…”, questa volta il pubblico non si è accorto nemmeno che stava parlando, così si disperse. In questa scena vi è tutto l’umorismo derobertiano pieno di sarcasmo e verità. Mi fa venire in mente alcuni politicanti locali, che nelle campagne elettorali non fanno nemmeno i comizi, riuscendo lo stesso ad ottenere il successo. “A che servono?” Loro hanno il “loro” elettorato e ovunque si spostano: sinistra, centro, destra, quei voti glieli devono vita natural durante da padre in figlio. A cosa servono i comizi? E molti di loro nemmeno sanno dirla una parola dietro l’altra … Peggio del duca D’Oragua! In cambio sanno curarsi bene i loro interessi personali.

Il Nono Capitolo si chiude con le storiche parole del Principe al figlio Consalvo:

“(…)Quando  c’erano  i  Viceré,  i  nostri  erano  Viceré;  adesso  che  abbiamo  il  Parlamento,  lo  zio  è deputato!…”[8]

              La data del 18 Febbraio 1861 citata nel romanzo è storica e funesta, vista l’importanza è giusto appuntare alcuni riferimenti. Intanto c’è da dire che le elezioni sono avvenute il 27 Gennaio[9] e in pieno disordine, tanto che i Piemontesi hanno dovuto mandare 15.000 soldati per l’ordine pubblico. Gli aventi diritto al voto dovevano aver compiuto il 25° anno d’età, essere di sesso maschile e saper leggere e scrivere, in più avevano dovuto pagare un’imposta diretta annua non inferiore alle 40  lire. In poche parole la cerchia era molto ristretta, solo 1,9%[10] della popolazione e accuratamente controllata dalla prefettura piemontese. Mentre nella “Padania” grazie ad un intervento legislativo del Cavour si ebbe un elettore ogni 12 abitanti mentre in Sicilia ogni 38. Ecco la sovranità popolare decantata dal  Giulente! Proprio Massimo D’Azeglio disse una frase rimasta nella storia: “Queste camere rappresentano l’Italia come io rappresento il Gran Sultano turco!”[11]. Basti pensare che lo stesso Garibaldi, con tutta la sua attenzione candidatosi nel Collegio elettorale di Napoli fu eletto con “l’enorme” consenso di 316 voti[12].

Socialmente vinsero i nobili, come il nostro duca D’Oragua,  poi principi, marchesi e conti; a seguire alti ufficiali, notai e avvocati; in forma minore professori universitari,medici e ingegneri.  Politicamente ha vinto la Destra con 46,1%  delle   preferenze. In quella Destra vi erano in gran parte i cavouriani, i liberali moderati e i monarchici. Mentre all’opposizione andarono: la Sinistra, formata da democratici e repubblicani, componenti della vecchia sinistra piemontese e elementi delle professioni liberali; e da ciò che in seguito fu chiamata “Estrema”: garibaldini e mazziniani. Questo fu il quadro politico in quel Parlamento  unitario, nella seduta comune della Camera dei deputati e del Senato presieduta da Urbano Rattazzi del 18 Febbraio di quell’anno,   presso  Palazzo  Carignano a  Torino[13].

Voglio premettere che spesso faccio riferimento a Smith perché molti personaggi siciliani di “cultura” lo hanno considerato oro colato, in realtà abbiamo già visto precedentemente, il suo pregiudizio razziale sul Popolo Siciliano.  Demis  Mack  Smith scrive:

“Già nel gennaio 1861, quando si tennero le prime elezioni parlamentari, l’apparato dell’influenza mafiosa si mise in moto e da allora in poi divenne un fattore stabile in molte circoscrizioni. Qualsiasi prefetto che cercasse onestamente di assicurare libere elezioni poteva essere rapidamente costretto a piegarsi, oppure si facevano giungere delle lamentele al governo ed egli  veniva diplomaticamente trasferito; nei sette anni seguenti il 1861 si successero rapidamente a Palermo una dozzina di prefetti. Se uno era tanto coraggioso da sfidare questo tipo di cospirazione, non era difficile rendergli la vita amara: il tentativo di arrestare Crispi nel gennaio 1861, il brutale assassinio del generale Carrao nel 1863, in cui il governo fu quasi certamente implicato, l’arresto di Giuseppe Badia nel 1865, questi erano i sistemi adottati per trattare con i principali luogotenenti di Garibaldi in Sicilia. ”[14]

Il sistema piemontese, la politica di Cavour, aveva in se la strumentalizzazione della malacarne locale per imporre la colonizzazione di fatto alla Sicilia. Alcuni storici vogliono discolpare Garibaldi e dare tutto il carico a Cavour, in realtà questi storici commettono un errore teleologico considerando il valore data alla figura all’“eroe”, e non valutando che fu frutto della propaganda progettata dal Cavour e dai vertici massoni internazionali. Pertanto il Generale Garibaldi non era altro che una marionetta senza alcun potere decisionale, ed ogni suo tentativo di tagliare i fili del comando era vitale, per il suo personaggio e non per l’uomo e questo lui lo ben sapeva. Quindi pensare alla Sicilia come terreno di scontro politico tra Garibaldi e Cavour è una vera forzatura storica. Se mai tra coloro che sono stati traviati dal risorgimento unista, per il risorgimento unitario, i quali scoprendo la poca valenza del loro “duce” si ribellarono autonomamente, ma trovarono immediatamente chi nell’ombra,  eseguiva l’ordine piemontese. Così quella malacarne ha fatto il salto di qualità, ha avuto un committente istituzionalizzato, allora si fa bene a chiamarla MAFIA! Così in Sicilia nei secoli dei secoli fin quando non sarà libera e indipendente!

Ecco che s’inseriscono quegli elementi devianti nella storia della Nazione Sicilia ormai colonia piemontese.



[1] Pagina 430

[2] Pagina 434

[3] Pagina 435

[4] Pagina 436

[5] ibidem

[6] Pagina 437

[7] ibidem

[8] Pagina 438

[9] Per il primo turno, mentre il ballottaggio si svolse il 3 Febbraio, questo per quanto riguardava i Deputati, cioè i membri della Camera, mentre per il Senato la nomina era diretta e regia, come appunto prevedeva lo Statuto Albertino. Il 17 Marzo dello stesso anno fu proclamati il Regno d’Italia. Quindi l’elezioni si svolsero in base alla legge elettorale n. 4513  del 17 dicembre 1860, che riprendeva le disposizioni della legge piemontese n. 680 del 17 marzo 1848, naturalmente scritta in lingua francese.

[10]Su una popolazione di 22.182. 377  solo  418. 696 gli aventi diritto mentre i votanti effettivi sono stati 239.583

[11] Un italiano serio. Il beato Francesco Faà di Bruno – di Messori Vittorio – Edizioni Paoline, Milano 1990

[12] Gli iscritti erano 873 e i votanti 452 (Storia dei Collegi elettorali, 1848-97 di R. Biffoli, C. Montalcini e L. Nuvoloni- Tipografia della Camera dei Deputati -  Roma, 1898).

 

[13] Questo quadro politico continuò fino all’elezioni del 5 Novembre 1876 quando la Sinistra vinse con il 70%  dei consensi. Una Sinistra in effetti molto cambiata nei contenuti politici per l’ingresso dei Socialisti.

[14] STORIA DELLA SICILIA Medievale e Moderna di Denis Mack Smith Editori Laterza – Bari 1971 pagina 606.


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