I VICERE’ PARTE SECONDA CAPITOLO QUINTO Pagina 491

(PARTE SECONDA CAPITOLO QUINTO Pagina 491)

 

“(…) grazie a lui, la prima ferrovia a cui s’era messo mano in Sicilia era quella da Catania a Messina, e il porto aveva numerosi approdi di piroscafi, e la città era stata dotata di numerose scuole, d’una ispezione forestale, d’un deposito di stalloni; e un istituto di credito, la Banca Meridionale, stava per sorgere; e il governo prometteva d’intraprendere una quantità d’opere pubbliche, di aiutare il municipio e la provincia; e i buoni liberali, i figli della rivoluzione, ottenevano a poco a poco quel che chiedevano: un posto, un sussidio, una croce.”

 

Gli Uzeda tutti sono i protagonisti di questo Capitolo, focalizzati nelle loro pazzie, come affermava donna Isabella al suo Raimondo nel suo gioco psicologico sottile ma efficace. Ormai è già legittima la loro posizione con l’annullamento dei matrimoni precedenti. In particolar modo per l’annullamento di Raimondo è abbastanza umoristico il ritorno dei due  campieri armati[1] come nel matrimonio di Chiara per obbligare il suo. La morte di Matilde scade nella freddezza degli Uzeda mentre inseguono le loro manie.

Raimondo ormai ha scoperto la sua nuova catena, molto più corta e più stretta della prima, e incomincia da avere quel carattere della bestia in cattività, è scontroso con tutti, perché la sua aspirazione era quella di esserne completamente privo, libero di fare a suo piacimento. Donna Isabella intuiva questo nuovo sentimento e allora non restava altro che distrarre il suo Raimondo da ciò, e allora quale se non dare alimento allo sfogo del rancore contro i suoi parenti? Così attinge alla vena inesauribile delle pazzie degli Uzeda. Raimondo dopo la sbornia della lotta contro i suoi fomentata da donna Isabella, come dice l’Autore ha tratto il totale ed il bilancio è una autentica catastrofe in tutti i sensi. Per questo motivo aveva rancore in particolar modo con il principe suo fratello Giacomo che ne approfittò per derubarlo delle sue sostanze. Donna Isabella alimenta questo rancore per distrarlo dalla vera inquietudine di Raimondo che era il loro legame. Quindi la cugina Graziella divenuta vedova e che a quanto sembra ha rispolverato il vecchio amore con Giacomo, la sua frequenza al palazzo è motivo di scandalo, mentre la principessa moglie Margherita non se ne cruccia affatto, anzi sembra alimentare la frequenza. Ma l’Uzeda più originale di tutti è Chiara con l’utero fradicio dopo l’estirpazione della ciste[2], l’unico suo pensiero era dare un erede al suo Federico, quello stesso che sposò con la minaccia dei due campieri[3]. Ora Chiara lei stessa metteva quasi sopra il letto del marito le serve più belle e più giovani affinché avvenniva come è successo ad Abramo nell’Antico Testamento quando Sara offrì la sua schiava Agar al marito, costatata la sua sterilità, e da quell’accoppiamento poi nacque Ismaele. In particolar modo rispunta la boccia polverosa con l’Ultimo Uzeda dentro. Chiara ormai aveva sempre con se il nascituro della serva e di suo marito:

“(…) quand’era sola, faceva calare dall’alto dell’armadio la boccia polverosa col mostricciattolo partorito da lei, abbracciava con un solo sguardo l’orribile aborto giallo come il sego e il bambino paffuto che tirava pugni, e due lacrime le spuntavano sulle ciglia. «Sia fatta la volontà di Dio!…» Riposta la boccia, tutte le sue cure e tutti i suoi pensieri si rivolgevano al figlio di Rosa, al quale aveva persino messo il nome di Federico…”[4]

        Il mostriciattolo, questo “Trinacrio” è un orribile aborto. Ma non l’amore di una donna che ha perso pure la speranza di divenire genitrice, nulla toglie la possibilità di essere madre, così rivolge tutti i suoi pensieri al nuovo arrivato paffuto, figlio di Rosa Schirano e del marito, ma anche suo, per sua esplicita volontà, la stessa volontà di Dio che le negò la maternità. Questa pazzia di Chiara in fondo, forse è la meno strana di quella tutti gli altri Uzeda.

Mentre il “Trinacrio” è un aborto senza colpa, il duca D’Oragua è il vero aborto politico de Il Ciclo degli Uzeda, perché vi è l’intenzione tutta ad essere tale.

Il duca d’Oragua!… Il deputato, il patriotta!… Dov’è? Dov’è?… Eccolo lì!… È ingrassato!… Manca da quasi tre anni!… Viene da Torino?… Signor duca!… Eccellenza!…”[5]

              Di questi tre anni lui è stato artefice che la prima ferrovia a cui s’era messo mano in Sicilia era quella da Catania a Messina. La storia della strada ferrata siciliana è emblematica, perché vi è stata una spinta alla realizzazione veramente significativa da parte dell’imprenditoria siciliana che ancora trasportava lo zolfo con le bestie da soma. Nel 1859 era stato fondato appunto un giornale Le ferrovie sicule[6], con lo scopo di attrarre investitori stranieri e locali. Già avevano risposto positivamente dal Belgio e dall’Olanda. Non solo, la spinta di questo giornale portò l’Istituto per la promozione dell’agricoltura, delle arti e dei mestieri di Palermo a bandire un concorso per lo studio di una rete ferroviaria della Sicilia. Si arrivò ad un progetto prioritario per la realizzazione del tratto ferroviario Palermo – Girgenti, con una  in quest’ambito sortiva un progetto che stabiliva come realizzazione prioritaria la ferrovia Palermo-Girgenti con una ramificazione per Caltanissetta e Licata, per fare fronte principalmente al trasporto dello zolfo verso il porto importante di Licata. Questa spinta di progresso trovò accoglienza positiva in quel breve momento  del Governo Provvisorio Dittatoriale di Garibaldi, tantoché il 25 settembre 1860 veniva firmata una convenzione con la Società Adami & Lemmi per la realizzazione della rete ferroviaria Siciliana. Ecco la prima alienazione anomala di questa storia. Un interesse strettamente imprenditoriale siciliano viene affidato a dei banchieri Toscani. Non solo a Torino questo evento è stato altamente criticato considerando l’iniziativa di Garbiladi un proprio atto di forza, tra gli oppositori più ferrati vi era Cavour, quindi è facile capire che per la società non vi era storia. Il giornale napoletano Il Nazionale, aveva rivelato che la Società in questione aveva lucrato cento milioni di ducati illegittimamente. Nell’Aprile 1861 il primo Governo Ricasoli (toscano pure lui) stipula la concessione con l’Adami & Lemmi per la realizzazione di ben 900 Km di ferrovia[7]. Nel 1862  il governo sabaudo neo costituito, revoca la convenzione, e trasferisce l’atto concessorio alla Società Vittorio Emanuele. Tramiti appalti e sub appalti i lavori per la realizzazione dei tronconi ferroviari Alcantara-Catania, Catania-Siracusa, ed i lavori della Stazione di Catania Centrale all’impresa Beltrami Gallone e C. I lavori non furono portati avanti per mancanza di finanziamenti. Il 29 novembre 1866 la Vittorio Emanuele stipulava una nuova convenzione con l’Impresa Generale per la costruzione delle strade ferrate calabro-sicule per continuare i lavori della Messina-Siracusa e della Palermo-Catania (tronco Termini-Lercara di km 40). I finanziatori erano per la maggior parte Francesi e soprattutto avevano interesse per i collegamenti tra i centri più ricchi di zolfo e i porti marittimi[8], pertanto spingevano per tale tratte anche se tortuose. La Messina-Catania, 96 chilometri venne inaugurata fino a Giardini – Taormina il 12 dicembre 1866 e da Giardini-Taormina a Catania il 3 gennaio 1867[9].

Quindi il porto di Catania era di grande interesse per i finanziatori stranieri. Tanto che il 1º luglio del 1869 la Stazione di Catania Centrale venne collegata al porto dove fu posta la Stazione di Catania Marittima. Bisogna aspettare fino al 1898 affinchè la Ferrovia Circumetnea raggiungerà il porto.

Ritornando al nostro duca d’Oragua il quale prende il merito nel romanzo di tale opere.  Un po’ come succede con i galoppini del mio paese che si impegnano per la raccomandazione per facilitare la pratica pensione o il trasferimento con il loro onorevole di riferimento e a cose fatte, magari senza nessun intervento da parte loro, solo e perchè l’iter burocratico ha fatto il suo percorso, si prendono il merito, poi nel periodo elettorale vanno a pretendere il voto dell’intera famiglia. E’ strano ma è ancora è così che succede. De Roberto descrive come il parlamentare d’Oragua si dà da fare per i “liberali” coloro che hanno sostenuto la lotta antiborbonica, ottenendo  un posto, un sussidio, una croce. Quell’assistenzialismo, da allora ad oggi, regime dopo regime, ha incrostato il sistema sociale, talmente che si è così irrigidito, atrofizzato da non creare stimoli economici di sviluppo.  A primo acchito sembra che il governo sabaudo sia bene intenzionato con la Sicilia a renderla fruibile e pronta all’ammodernamento, in realtà inserì un sistema di impoverimento che in poco tempo portò il Popolo Siciliano alla ribellione per intolleranza al sistema politico sociale del nuovo regime unitario “Italia”. In realtà il vero scopo della conquista del Regno delle due Sicilie era appunto questo: salvare il Regno di Sardegna, salvare dalla bancarotta il Piemonte, quindi nascondere nella parola “liberare” un altro verbo: depredare! Questo argomento è trattato in maniera magnifica nel capitolo “Dispari opportunità” del libro di Pino Aprile “Terroni”. Aprile scrive: “L’impoverimento del Meridione per arricchire il Nord non fu la conseguenza, ma la ragione dell’Unità d’Italia. La ragione dei pratici; quella dei romantici era un’ideale. Vinsero entrambi. –O la guerra o la bancarotta- scrisse il deputato cavouriano Pier Carlo Boggio, nel 1859, nel libretto Fra un mese (ci siamo, neh?). –Il Piemonte è perduto- Conclude, dopo avere analizzato i bilanci, un giornale dell’epoca, l’Armonia (fra i suoi fondatori Gustavo Benso, fratello di Cavour (…)”[10]

Come succede tutt’oggi quando gli USA vanno a bombardare un paese come ad esempio l’Iraq, mette tutto in conto: bombe, anche quelle in magazzino dalla guerra del Vietnam, vite umane perse, mezzi, armi utilizzate, lasciando sul posto magazzini pieni di strumenti di morte, che vanno a finire nel mercato dei vari focolai di guerra in Africa e altrove a prezzi di strenna, insomma tutte le spese per quella “missione di pace”, al paese distrutto, cioè a l’Iraq stesso, vantando un credito che recupererà con le materie prime di quel paese, ad esempio il petrolio.

Così è successo con la liberazione del Regno delle due Sicilie da parte del Piemonte, hanno messo tutto in conto, prelevando (derubando) immediatamente dalle casse del Banco di Napoli e Banco di Sicilia e poi con “l’imposta del decimo di guerra”.

Mentre il patrimonio del Regno delle due Sicilie era pari a 445,2 milioni di lire in oro, quello di tutti gli altri stati messi assieme non arrivava nemmeno alla metà. Sostanze dissipate durante la gestione dittatoriale garibaldina. Il governo sabaudo, visto il forte indebitamento e il disavanzo previsto per il 1862 pensa di aggravare i Napoletani e i Siciliani con una nuova tassa, quella del decimo di guerra e visto che si ci trovavano pure:   quella del registro graduale, e dalla nuova tassa sull’industria, la mobiliare, e la personale. Aggiungendo il dazio che non c’era, la tassa sul macinato che colpiva i più poveri ed altro ancora. Si toglieva al Sud e si investiva al Nord, fin quando si arrivò a togliere il mercato europeo (francese in particolar modo) per favorire il prodotto del Nord. Le arance siciliane mentre prima dell’Unità erano le più vendute in tutta Europa, apprezzate e redditizie, come pure le mandorle, l’olio, il pistacchio, tanto che nel 1863 viene stipulato un trattato che favoriva tale produzione, “nel 1867 il trattato con la Francia viene rotto per favorire la nascente industria settentrionale, provocando – reazioni che culminarono in una guerra doganale, con una notevole riduzione degli scambi fra i due paesi.”[11] In ultimo affibbiano ai popoli del Sud ed al Popolo della Sicilia il pregiudizio razziale come vero motivo del mancato sviluppo economico di queste aree. Non sono le scelte mirate di quei governi ma l’attitudine in quanto popoli di razza afro di pelle chiara. Nel parlamento erano pochi i deputati che facevano sentire la loro voce di protesta, mentre concentravano le loro forze al clientelismo ed ad un localismo ristretto al proprio collegio elettorale. Quando poi venivano nelle loro città si vantavano di avere fatto il loro “dovere”, non l’interesse della Sicilia, del Popolo Siciliano, ma del particolare, curare l’interesse di qualcuno per  la pensione, o per il posto, anche per qualche semplice titolo onorifico. Ecco questo è il nostro deputato patriota duca d’Oragua!

In questi giorni ho letto il romanzo di appendice I PUGNALATORI DI PALERMO DEL 1862 di Salvatore Mannino pubblicato nel 1903 dove questo argomento viene trattato. L’autore inserisce il malumore politico dei deputati Siciliani riuniti dopo la caduta del I Governo Rattazzi[12] per concretizzare una azione parlamentare per favorire lo sviluppo della Sicilia. Il deputato patriota in questo romanzo è il personaggio Fabrizio La Bruna, il quale presenta l’ordine del giorno: “(…) per un po’ più rispetto alla libertà che tanto sangue e tanti sacrifizi era costata alla Sicilia; perché s’arrestasse la china fatale già incominciata ad incanalare tutte le risorse della Nazionale al nord d’Italia e perché finalmente si smettesse di trattare l’isola sconsolata da terra di conquista. (…) Erano però tutti convinti che, chiunque fosse venuto a governare l’Italia, doveva cambiare indirizzo politico, e tutti speravano in un nuovo orientamento interno che desse alla Nazione la vera libertà ed alla Sicilia un po’ di benessere nella uguaglianza dei diritti e dei doveri.”[13] Salvatore Mannino è uno scrittore unitario e tutto il romanzo è propenso a dare una impronta a favore per l’Italia Unita, ma avviene in questi casi una idiosincrasia politica come abbiamo visto con scrittori Siciliani precedentemente argomentati. Questo tassello dentro il romanzo non basta da solo a dare un senso politico dei deputati patrioti visto che sappiamo il procedere della storia italiana e purtroppo quella siciliana. Tanto che in una schizofrenia letteraria l’autore, a mio avviso, mette i due personaggi principali non solo a confronto ma come uno sdoppiamento di personalità: il bene e il male. Così scrivo nella impressioni di lettura avute di questo romanzo: “Nell’opera del Mannino le figure di Fabrizio La Bruna e del suo alterego Marco Sanvito, alias Vittorio Samprivato, vertono tutte e due nella figura reale e storica del principe di Sant’Elia, tramite la stanza segreta nel palazzo che realmente non c’è traccia. Perché in realtà è pericolosa la idealizzazione dei personaggi, rappresentanti del bene e del male, nelle opere di carattere storico, sia romanzi che opere teatrali, film o sceneggiati televisivi, perché possono essere dei giustificati corruttori della verità storica, narrando una loro verità. Il giallo de I PUGNALATORI DI PALERMO DEL 1862 di Salvatore Mannino, ha avuto la sua soluzione, enigmatica e vista nella mia ottica, pure perversa della vittima carnefice. La stanza segreta in fondo rappresenta l’animo del La Bruna che imprigiona Sanvito (la sua personalità sovversiva) nascondendo così dentro se la sua passione rivoluzionaria indipendentista, affinché la sua nuova figura politica di senatore del Regno d’Italia possa essere libera di tradire se stesso. Questo è successo a tanti nobili rivoluzionari indipendentisti siciliani, i quali anche se criticarono la nuova colonizzazione italiana a parole nei fatti si arresero al sistema usufruendone i benefici. Questi però non furono seguiti dal Popolo Siciliano che ne subì effettivamente i danni, fu pronto alla rivoluzione contro l’Italia, come poi successe nel 1866. Ma, come amaramente ci insegna la storia, le rivoluzioni per essere efficaci hanno bisogno di tutte le anime di un popolo.”[14]

De Roberto nel suo duca d’Oragua inserisce bene tutti gli elementi, nello stesso modo come nella creazione del “Trinacrio”: l’occhio ciclopico, le tre gambe, in parte pesce e in parte uccello; così nel deputato patriota: “(…) lo accusavano d’essersi finalmente rammentato del collegio adesso che, sciolta la Camera, voleva gli riconfermassero il mandato; ma questi mormoratori erano gli eterni malcontenti, i pochi repubblicani, qualche garibaldino sfegatato, tutta gente che non poteva perdonargli la sua iscrizione al partito conservatore. Nelle conversazioni politiche egli difendeva infatti a spada tratta la politica moderata, «ora che abbiamo fatto la rivoluzione e raggiunto lo scopo»; e celebrava l’azione prudente del governo, deplorava le intemperanze di Garibaldi, biasimava il malcontento contro la Convenzione di settembre[15], affermava che la lega dei buoni era necessaria per salvar la nazione dai nemici esterni ed interni. Più che nei primi tempi della deputazione, faceva colpo mentovando i suoi grandi amici politici: «Quando andai da Minghetti… Rattazzi mi disse… In casa del ministro…»”.[16]

Quindi conservatore, moderato, ma soprattutto sostenitore della “ragione di stato”. Con questo alibi il potere istituzionale si è potuto permettere il sopruso di tanti diritti e di tante libertà a spese del popolo.

Il povero Giulente anche lui che aveva dato così tanto alla causa patriottica da rivoluzionario subisce la metamorfosi in conservatore “a rimorchio” del duca, nascondendo il desiderio di diventare deputato. Diventare deputato! E’ questa la corruttela politica siciliana che lentamente trasforma uomini impegnati con un sentimento autentico alla difesa della propria Sicilia pronti ad accettare il compromesso. Ancora oggi segretamente c’è la “secreta brama” in ognuno seduto in Sala d’Ercole del Parlamento Siciliano di “esser deputato, mettersi nella grande politica[17]. In questa “brama” vi è il pieno tradimento del mandato del Popolo Siciliano.

       “Acquistane rendita pubblica!”[18]

Si aggiunge a tutto ciò l’interesse d’investimento economico per la rendita pubblica che lentamente contagia gran parte dei nobili e dei nuovi arricchiti. L’Italia diventa un investimento. Il duca d’Oragua standosene al palazzo del potere prende e cede in base alle notizie. Gli Uzeda uno alla volta si convertono; toccherà pure a don Basco: “Impiego sicuro, signori miei!… Quando la rendita napoletana era al cento e dieci!… Un altro poco e scenderà al cinque la cartaccia sporca!… Allora con cinque lire di capitale, avremo cinque lire l’anno! Arricchiremo tutti quanti! Viva la cuccagna! Viva il gran Vittorio!” [19]

A questo punto è doveroso chiarire gli eventi di economia politica nella storia, iniziando con l’istituzione del Gran Libro del Debito Pubblico italiano del Regno d’Italia[20]dove furono fatti affluire tutti i costi della creazione della struttura unitaria dello Stato e i costi di tutte le iniziative militari trascorse ed in corso. Quindi bastarono 10 anni di vita affinché l’Italia si trovasse con un debito pubblico del 95% del PIL. Allora i vari governi ricorrendo ai ripari al disavanzo di cassa, basti pensare che nel 1862 si riuscì a coprire solo il 60% delle spese con le varie entrate, incominciarono ad aumentare le imposte, ammetto che alcuni parlamentari contestarono focosamente, ma fu così che iniziò il calvario e che ancora tutt’oggi non è terminato affatto[21].

Dalla RELAZIONE DEL DIRETTORE GENERALE ALLA COMMISSIONE PARLAMENTARE DI VIGILANZA del 1988[22] si leggono molti dati importanti, ad esempio che i costi della guerra d’indipendenza e quelli per l’Unità d’Italia sono inclusi nel Debito Pubblico del Regno di Sardegna all’atto dell’unificazione, ciò significa che pure le entrate sono state incluse e sappiamo che furono abbastanza esose, svaligiando letteralmente le casse di un regno ricchissimo come quello borbonico. Il nuovo regno si era imposto di adeguare lo Stato all’epoca in cui viveva, quindi non bisognava frenare la spesa sulle opere pubbliche. Pur se nel 1871  le spese straordinarie militari erano completamente finite, si è dovuto assorbire:  “Debito veneto (1868) e pontificio (1868 e 1871), del pagamento di una indennità di guerra all’Austria (1866) e del riscatto, dalla Società delle ferrovie dell’Austria meridionale, delle linee dell’Alta Italia (1876), per un totale di poco più di 2 miliardi di capitale nominale e circa 80 milioni annui di rendita[23]

Il Ministro delle Finanze Pietro Bastogi[24] colloca sul mercato nel luglio 1861 titoli, per la copertura di 500.000.000 di lire netti di prestito,  a 70,5 lire per 100 lire di capitale nominale, per un totale di 715.000.000 di lire. Non riuscirono a coprire il deficit per il 1861 altro che quello previsto per il 1862. Tanto che non bastò nemmeno la vendita dei beni ecclesiali e demaniali[25] e allora il successivo Ministro Minghetti[26] con approvazione del 10 marzo 1863  colloca nel mercato titoli a 71 lire, per un totale nominale di 1 miliardo di lire a copertura di un prestito di 700.000.000 di lire. La circolazione dei Buoni del Tesoro, passarono tra il 1861 e il 1862 da 38,9 a 227,5 milioni di lire.[27]

I fatti di questo Capitolo de I Vicerè sono tra il 1864  e il 31 dicembre del 1865 corrispondente alla cacciata del signor notaio Marco dal quartierino del palazzo Uzeda. Don Marco la prende male e davanti al mastro di casa  Baldassare, nonché Uzeda pur se “bastardo”, esterna il suo rancore: Dieci anni! Dieci anni di studio per rubare i suoi parenti! quegli altri pazzi e furbi, scemi ebirbanti!… E non mangiava, non beveva, non dormiva, studiando il modo di accalappiarli, facendo il moralista, fingendo l’affezione, il rispetto alle volontà di sua madre; pezzo di Gesuita più diquell’altro Sant’Ignazio del Priore, pezzo di porco più di quell’altro maiale di don Blasco! Ah, crede che la gente non sappia quant’è porco, con la ganza in casa, adesso che non ha più nessuno da rubare, con la ganza sotto gli occhi di sua moglie, sotto gli occhi di sua figlia, fino all’altr’ieri?..”[28]

Il 14 luglio 1864 legge n°1830 fu introdotto il sistema tributario del Regno tassando pure la ricchezza mobile[29]. Furono così tassati pure i titoli di Debito Pubblico.  Il 20 novembre del 1864 venne approvata la convenzione proposta dal Ministro delle Finanze Sella con la Società Anonima[30] per la vendita dei beni demaniali, visto che andavano molto a rilento, mentre occorreva fare cassa al più presto, dove si conveniva che tale Società doveva sborsare in anticipo al Governo 150.000.000 di lire, mediante il collocamento sul mercato di obbligazioni proprie, mentre la Società riceveva 212.000.000 di lire in obbligazioni non negoziabili, da rimborsare con l’effettiva somma incassata dalla Società Anonima nella vendita dei beni demaniali. L’approvazione di tale convenzione arrestò in quel momento la continua discesa delle quotazioni del Debito Pubblico. Passarono pochi mesi e Sella ritornò alla carica proponendo un  nuovo prestito di 425.000.000 (netti) di lire.

Ecco allora che il nostro duca d’Oragua poteva nuotare così bene nei suoi affari con la rendita pubblica riuscendo a sapere prima le collocazioni nel mercato e vendendo in anticipo per il riacquisto e così ingrassarsi.  Speculazioni in borsa da parte dei politici che conoscono in anticipo le manovre di governo sono state possibile, fu eclatante negli anni ’70 e ’80 per il controllo dell’inflazione, comunque da sempre.  E’ il semplice gioco della domanda e della offerta quando avviene l’inserimento nel mercato di nuovi prestiti che i politici e i loro amici hanno fatto le loro speculazioni in borsa, pure quando in base a l’inserimento di elementi legislativi che causano un abbassamento del potenziale d’acquisto della moneta nazionale. Cosa semplice e non così dannosa come le speculazioni da gruppi internazionali che i politici hanno fatto passare solo perché attenti al loro giardinetto davanti casa, o magari perché membri ubbidienti di qualche associazione per l’appunto internazionale. Ad esempio prima hanno privatizzato le nostre banche pubbliche e ora si è costretti ad una  esorbitante intermediazione bancaria privata consentita dalla BCE[31] di 80 miliardi di euro all’anno. Chi ha permesso tutto ciò? La colpa si riversa tutta su Giulio Amato[32]. Di sicuro non è tra gli innocenti, ma è stato frutto di un connubio delinquenziale tra politici e affaristi per la nascita delle fondazioni bancarie sancita con la sua legge[33].  Tra tanti danni causati da questa legge ci fu la trasformazione, insieme ad altri istituti bancari[34], del nostro Banco di Sicilia, da istituto di credito di diritto pubblico a società per azioni e in parte avviene la  generazione di una fondazione dove sono state trasferite tutte quelle attività non attinenti ad una impresa. Il discorso è molto ambio e pieno di scandali e fatti criminali di ogni genere così enormi, dalla Banca di Roma a i Monti Paschi di Siena che hanno segnano irrimediabilmente il destino di questa “nazione”.

 

 



[1] Pagina 492

[2] Pagina 495

[3] Pagina 313

[4] Pagina 499

[5] Pagina 491

[6] Il fondatore è stato Gaspare Cipri, imprenditore palermitano.

[7] Taranto-Reggio Calabria, Messina-Siracusa e Palermo – Catania

[8] Palermo, Porto Empedocle, Licata e Catania.

[9] Catania–Lentini venne inaugurata 1º luglio 1869 e la Lentini–Siracusa il 19 gennaio 1871

 

[10] TERRONI di Pino Aprile – Edizione Mondolibri S.p.A. Milano su licenza EDIZIONE PIEMME S.p.A. Milano – Anno 2010 – Pagina 94.

[11] Ibidem pagina 125

[12] Il Governo Rattazzi I è stato in carica dal 3 marzo 1862 all’8 dicembre 1862 VIII Legislatura.

[13] I PUGNALATORI DI PALERMO DEL 1862 di Salvatore Mannino dell’Antares Editrice di Palermo, Anno 2004, linea editoriale Lighea – Biblioteca popolare siciliana – Pagina 288

[14] LA NOTTE DEI PUGNALI – Alphonse Doria (http://alphonsedoria.files.wordpress.com/2011/05/la-notte-dei-pugnali.pdf).

[15] Trattasi di un importante accordo tra le diplomazie del regno d’Italia e il Secondo Impero di Napoleone III, stipulato a Fontainebleau, il 15 settembre 1864, si è sottoscritto da parte dei Francesi il ritiro entro 2 anni delle truppe dallo Stato Pontificio e da parte degli Italiani l’impegno ad non attaccare Roma, anzi difendere anche di attacchi esterni. Inoltre per sedare qualsiasi dubbio il Regno d’Italia doveva trasferire la propria capitale in altro luogo da Torino, come prova incontrovertibile del desistere di fare Roma Capitale del Regno. Quest’ultima parte trovò discordi i nobili Piemontesi e vi furono contestazioni aspre represse duramente. La capitale si spostò a Firenze.

[16] Pagina 491

[17] Pagina 496

[18] Pagina 497

[19] Pagina 497 e 498

[20] Legge del 10 luglio 1861, n. 94

[21] Le imposte introdotte: 1864 sul redditi di ricchezza mobile e fu riordinata quella fondiaria; 1868 sul macinato e l’imposta sui redditi provenienti dai titoli di Debito Pubblico, tutte le aliquote impositive sono state inasprite.

Cespiti extra-tributari: vendita di beni demaniali; vendita dell’asse ecclesiastico;

1865 cessione alla Società Alta Italia delle ferrovie possedute dallo Stato e del materiale rotabile (per 188 milioni di lire);1869 concessione della Privativa dei Tabacchi ad una Regìa cointeressata per 15 anni (contro anticipazione di 180 milioni di lire). Fu così, poi, che tra il 1862 e il 1868 le entrate aumentarono del 79%, il che fece scomparire il deficit al netto degli interessi già fin dal 1867.

[22] IL DEBITO PUBBLICO IN ITALIA 1861-1987 – Volume I – RELAZIONE DEL DIRETTORE GENERALE ALLA COMMISSIONE PARLAMENTARE DI VIGILANZA – Edito ISTITUTO POLIGRAFICO E ZECCA DELLO STATO – Paolo Ranuzzi Direttore Generale ROMA – 1988

[23] Ibidem, pagina 16

[24] Pietro Bastogi nato a Livorno il 15 marzo 1808 morì a Firenze il  21 febbraio 1899. è stato il primo Ministro alle finanze del Regno d’Italia incarico dato da Cavour e che tenne con il primo Governo Ricasoli. Le sue opere da ministro furono principalmente: l’unificazione dei debiti pubblici degli stati unitari, e l’istituzione del Gran libro del debito pubblico. Era pure un industriale e senza alcuna incompatibilità della sua carica politica nel 1862 fondò la Banca Toscana di Credito per le Industrie e il Commercio e  la Società Italiana per le strade ferrate meridionali, come abbiamo già visto rattazzi diede la concessione per le costruzioni delle ferrovie meridionali e fu naturale lo scoppio di uno scandalo che fu messo a tacere con una dichiarazione di censure nei suoi confronti.

[25] Proposta del Ministro delle Finanze Quintino Sella

[26] Marco Minghetti nato a Bologna l’ 8 novembre 1818, morì a  Roma il  10 dicembre 1886 è fatto parte come politico alla destra storica. Riuscì sotto la guida del suo secondo governo a raggiungere un dato storico per l’Italia: il pareggio di bilanci nel 1876. Insieme a Giuseppe Montanelli aveva fatto una proposta veramente interessante, riformare la neonata Italia in una confederazioni di Stati, peccato non fu ascoltato.

[27] Dati assunti da:  IL DEBITO PUBBLICO IN ITALIA 1861-1987 – Volume I – RELAZIONE DEL DIRETTORE GENERALE ALLA COMMISSIONE PARLAMENTARE DI VIGILANZA – Edito ISTITUTO POLIGRAFICO E ZECCA DELLO STATO – Paolo Ranuzzi Direttore Generale ROMA – 1988

[28] Pagina 504

[29] Fu riordinata l’imposta fondiaria.

[30] Fondata,  possiamo dire, per l’occasione da Domenico Balduino, presidente della Società Generale di Credito Mobiliare

[31] Banca Centrale Europea

[32]Giuliano Amato di famiglia d’origine siciliana nasce a  Torino il 13 maggio 1938 è politico, giurista e docente italiano, presidente del Consiglio dei ministri dal 1992al 1993 e dal 2000 al 2001, Giudice costituzionale dal 2013, Ministro del Tesoro (1987 – 1989) e con il governo D’Alema (1999 – 2000); Ministro dell’Interno (2006 – 2008). Appartenenza politica Partito Democratico, precedenti: PSIUP (fino al 1972)
PSI (1972 – 1994).

[33] La legge n. 218 del 1990 del 30 luglio 1990, comunemente detta Legge Amato, concernente le «disposizioni in materia di ristrutturazione e integrazione patrimoniale degli Istituti di credito di diritto pubblico», Prima di questa legge il sistema bancario era largamente influenzato dal settore pubblico, sia con gli istituti di credito di diritto pubblico sia con le banche di interesse nazionale (B.I.N.) che facevano capo all’IRI e quindi indirettamente allo Stato.

[34] Banco di Napoli, Monte dei Paschi di Siena, Istituto Bancario San Paolo di Torino, Banco di Sardegna, Banca Nazionale del Lavoro. 

PROPRIETA’ LETTERARIA RISERVATA

Il contenuto di quest’opera è di esclusiva proprietà e creatività di Alphonse Doria di cui se ne assume la responsabilità. L’opera è protetta a norma di legge. Ogni riproduzione, anche parziale, è concessa in tutti i paesi del mondo, purché venga citata la fonte.

http://alphonsedoria.wordpress.com/about/letteratura/lultimo-uzeda/



Lascia un Commento

*

Siti per blog