“La storia di Consalvo” di Faenza

 

I VICERE’

La storia di Consalvo” di Faenza

DALLE PAROLE ALLE IMMAGINI

Di

Alphonse Doria

              Il parallelismo che intento fare tra il romanzo di De Roberto e il film, liberamente ispirato di  Roberto Faenza[1], il quale ha scritto e diretto, è una indagine sui i pregiudizi politici, storici e sociali, (se vi sono) in quale forma e perché, dell’adattabilità del romanzo all’immagine. Pertanto non ritengo sufficiente il liberamente ispirato per potere concedere licenze al regista di deviazioni ideologiche di fondo. Il film è prodotto da Elda Ferri[2], la prima è stata il 9 novembre 2007, poi il 24 e il 25 novembre 2008 in prima serata su RAI UNO. Roberto Faenza viene ritenuto un regista impegnato e lui stesso divede le sue opere in due tronconi principali:  una prima produzione di film impegnati politicamente, estremisti, contestatari e sessantotteschi e una seconda produzione di film più umani, sentimentali e intimisti. Ho condiviso molto della sua presentazione del film, principalmente l’avere centrato l’importanza dell’opera derobertiana, cioè l’individuazione del problema genetico dell’Italia, il regista afferma: “Il film si accinge, con la dovuta umiltà e rispetto, a colmare un vuoto e a pagare un tributo. Ciò che siamo stati e ciò che siamo, i vizi che ci affliggono, la resistenza a ogni cambiamento e, per contro, la vocazione al conformismo, la tempestività a chinare la schiena di fronte ai vincitori… tutto ciò è stato magistralmente narrato da De Roberto. Il suo è un dipinto che rappresenta la fotografia più impietosa del nostro DNA, tratteggiata con le armi dell’ironia e del grottesco.” Vi è da precisare, e a mio avviso dal suo film non si evince, la ragione del problema genetico dell’Italia. Dal mio punto di vista è il tradimento del risorgimento confederale, come ho già precisato, con la piemotesizzazione. Ed è questo volere nascondere tali ragioni a livello scolastico e istituzionali che non ha portato mai alla giusta diffusione l’opera di De Roberto e non i motivi clericali oppure il condizionamento della critica crociana. E’ più anticlericale I promessi sposi, con il suo Don Abbondio e Geltrude, la monica di monza, che tutto il convento benedettino de I Vicerè. Per poi trattare Benedetto Croce, da tempo la scuola lo ha posto nel suo tabernacolo e da lì lo prende e lo “posa” quando vuole. La verità è che l’Italia ha avuto un tabù politico: il confederalismo. Sembra che perfino Faenza n’è soggetto … nonostante il suo modo libero di costatare il mondo politico.

Prima di passare al film del Faenza, sia cinematografico che televisivo, vorrei fare cenno ad almeno altri due tentativi di realizzazione de I Viceré per il piccolo schermo. Tanto è che negli anni Ottanta la Rai commissionò una sceneggiatura, fu scritta per quattro puntate da Sandro Bolchi[3] e Lucio Mandarà[4], interpellando nel 1988 come consulente storico e letterario niente meno che Gesualdo Bufalino[5], dove scrive le note di revisione. Una copia di tale opera si trova a Comiso nella Fondazione Bufalino.

La docente Margherita Ganeri[6] è andata ad intervistare Mandarà così scrive:

“Mandarà ha accettato di incontrarmi  nell’estate del 2006 presso la sua abitazione e in questa occasione ha detto che lo sceneggiato non fu più realizzato a causa della censura del Vaticano, intervenuto a impedire la messa in onda di un prodotto blasfemo. In effetti, particolare importanza veniva riconosciuta, nella sceneggiatura, al personaggio di Don Blasco, e quindi al suo anticlericalismo. Mandarà, lettore appassionato di De Roberto fin dall’adolescenza, aveva inoltre voluto costruire una serie di allusioni alla storia politica italiana degli anni Settanta, dal malgoverno intrinsecamente trasformistico della Democrazia cristiana, al fallimento del progetto eversivo delle Brigate rosse, accostate, anche iconograficamente, ai garibaldini della spedizione dei Mille.”[7]        

Non ho motivo di dubitare alle asserzioni dell’ottimo Mandarà, ma a me sembra ancor più pressante un vieto di carattere politico più che religioso, anche perché gli anni a seguire per la storia politica italiana. Quegli anni Novanta che portarono allo stravolgimento di potere, con “mani pulite”, la demolizione della cosiddetta “Prima Repubblica”, le bombe di Palermo a Falcone e Borsellino, la Lega con i suoi propositi “federalisti”, uno sceneggiato fedele al romanzo come l’onestà intellettuale di Bufalino, Mandarà e principalmente Sandro Bolchi, visto ciò che è riuscito a realizzare con I fratelli Karamàzov e I Demoni di Fedor Dostoevski,  significava portare alle famiglie, in prima serata, uno strumento di apprendimento della macchina del “potere forte”, nata con l’Italia e che stava agendo proprio in quel periodo. Insomma l’elemento analizzato da De Roberto cioè il fallimento del risorgimento e il boicottaggio piemontese e massonico dell’Italia federale diveniva con quest’opera dominio del popolo e questo risultava al “potere” inaccettabile, per questo non superò la soglia.  La prof. Gaderi appunto scrive che:

“Bolchi esibisce nella sceneggiatura un criterio di rigorosa fedeltà alla trama del romanzo-  Mentre Mandarà, continua Gaderi -ha dichiarato di aver costruito la trasposizione lavorando nella duplice direzione della fedeltà e dell’attualizzazione politica”[8]

Il fallimento risorgimentale che si assiste nel libro diveniva pericoloso nel piccolo schermo. Ripeto, Don Blasco non fa paura alla Chiesa, anche accentuato e traviato come abbiamo già visto nel Faenza. Sicuramente qualche alto prelato si è mosso contro tale realizzazione, spinto di più dalla politica che dalla fede.

La televisione di Stato commissiona un’altra sceneggiatura de I Vicerè negli anni novanta richiedendo questa volta un lavoro di grande impegno di ben nove puntate, poi per una drastica diminuzione a sei e prima di finire il decennio furono poi sospesi i finanziamenti e messo tutto in archivio.

Il realizzatore di tale sceneggiatura è stato Ugo Pirro[9], collaborato da Massimo Russo e Aida Mangia. Non vi sono pubblicazione di tale trasposizione, le uniche copie sono rimaste di proprietà del regista, la quale prof. Gaderi, tramite il Russo ha avuto la possibilità di analizzare l’opera di quasi quattrocento pagine. La quale ne evidenzia la passione di Pirro (…) per la letteratura siciliana, da Verga a Sciascia e sopratutto per il capolavoro di De Roberto. Ha riscontato inoltre una adesione abbastanza fedele alla trama del romanzo. La voce narrante viene affidata a  Benedetto Giulente, come perdente e rivoluzionario fallito, riveste un ruolo primario, diventando la voce gnomica del racconto storico. La critica al Risorgimento e a Garibaldi si inscrive in una visione pessimistica della storia. Mentre la figura di Consalvo è posta in secondo ordine, quella della principessa Teresa assume la mentalità trasformistica. L’opera si conclude con una scena surreale, dove tutti gli Uzeda sono vivi nella loro dimora di Catania dove un piano viene fatto all’immagine di Vittorio Emanuele, impauriti dall’ingresso del comitato elettorale di Consalvo, i quali si rasserenano e iniziano a danzare dopo l’ingresso nella sala, di Ferdinando II di Borbone. Secondo la prof. Si voleva rappresentare l’immobilismo farsesco della storia, a un grottesco gattopardismo per cui niente cambia davvero.”[10]

Sicuramente la censura del “potere” ha agito in maniera inesorabile sulla critica al Risorgimento e soprattutto a Garibaldi, mito fondante dell’Italia massonica, dove possono far cadere la prima, la seconda, la terza e via di seguito, di Repubblica, ma di sicuro c’è che non cede affatto la struttura di “potere”, quello vero al di sopra dei governi e della democrazia, che apre e chiude il consenso, soprattutto della cultura, dello spettacolo e dell’informazione. Mi immagino il punto di prospettiva della narrazione del liberale Giulente, che da rivoluzionario confederalista, delusione dopo delusione si trova la Sicilia colonizzata di fatto.

Viene logico domandarsi come mai ad Il Gattopardo è stato concesso? Perché sia il romanzo del Tomasi sia il film di Visconti contengono un atto di accusa al Popolo Siciliano, dove nel famoso dialogo di don Ferdinando con Chevalley si lascia intravedere i Piemontesi che vogliono ammodernare, svegliare i Siciliani, ormai senza speranza. Il dialogo nel film è stato ripreso fedelmente dall’Opera letteraria ed ha una posizione di primo piano, molto convincete e attestante la rassegnazione assoluta del Popolo Siciliano. Argomento che ho già trattato nel parallelismo letterario tra Sette e mezzo di Giuseppe Maggiore e l’Opera del Tomasi di Lampedusa, dal titolo Don Fabrizio e la Verità:

“Quelle parole possono rappresentare una angolazione della verità, ma non la verità, sicuramente rappresentano il male, ed è giusto che il male si guardi negli occhi, però senza farsi dominare. In quelle parole non vi è la luce della vita, ma l‟ombra della morte, non vi è la terra sotto i piedi, ma il vuoto, il  baratro dove fare sprofondare la storia del Popolo Siciliano[11]

Questo effetto catastrofico dei Piemontesi buoni e dei Siciliani rassegnati nel loro dna, per una questione di razza, inserito come un virus nella cultura siciliana è stato ben apprezzato dal “potere”, valeva la pena sacrificare una verità storica della farsa del Plebiscito per rafforzare l’altra verità traviata che il Risorgimento è stato un fallimento si, ma non per l’effetto della colonizzazione ma perché il Popolo Siciliano è impotente al cambiamento. Una tragedia pregiudizievole che ancora oggi abbiamo sulle spalle e non ci permette di muoverci liberamente.

Mentre il pubblico del teatro è una elite, pertanto non suscita attenzione da parte dei censori come invece succedeva sotto il fascismo, i quali allo scopo s’inventarono la SIAE, il piccolo e grande schermo è sotto stretto controllo, oltre ai politici di turno, anche dagli oscuri e a volte macabri manovratori del “potere”, quelle che Falcone chiamava “menti raffinatissime”. Così si è espresso il 20 giugno ’89 dopo il fallito attentato dell’Addaura presso Mondello:

“Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi.”

            Questo per introdurre che rimpiango di non avere visto la messa in scena  dell’allestimento teatrale de I Viceré curato da Armando Pugliese, per la Produzione Teatro Stabile di Catania, nel 1988, dando un taglio critico alla realtà presente, proprio la locandina per l’appunto portava questo pensiero:

“Il volto uguale della Sicilia di ieri e di oggi in quel romanzo pubblicato circa un secolo prima delle stragi di Capaci e di via d’Amelio”.

  

         Il film di Faenza inizia con questa scritta su fondo nero:

Ma come, Federico De Roberto, quel galantuomo siciliano di cento e più anni fa, pronunziava davvero le frasi presenti nel film, che sembrano scritte oggi da un tribuno estremista o da un guitto irriverente?

             Queste parole denotano l’attualità dei contenuti del romanzo, ed è sottointesa la fedeltà della trasposizione, in verità Faenza ha trasferito alcuni dialoghi. Una promessa allo spettatore non del tutto mantenuta. Il film di Faenza ha la voce narrante di Consalvo, l’Uzeda che salirà le vette del potere politico, mentre nel romanzo non vi è un io narrante ma una terza persona impersonale. Questa voce narrante inizia dicendo di ascoltare delle voci interiori, più di cento, che parlano a volte tutte assieme e si contraddicono pure. Così ha scritto De Roberto:

“Io sento dentro di me dieci, cento donne diverse, una moltitudine di esseri ciascuno dei quali vorrebbe operare a sua guisa e il più strano è che tutte costoro non parlano già ciascuna per volta ma insieme, interrompendosi, contraddicendosi, confondendosi tumultuariamente. Lo scritto ha il torto di non dimostrare questo dissidio. Consolatevi pensando che anche la parola sarebbe impotente.”[12]

Le prime immagini che spuntano sullo schermo sono della voce narrante che subisce una punizione corporale a dieci anni, sotto lo sguardo indignato del padre principe Giacomo (magnifica interpretazione di Lando Buzzanca) ed assistito dal maggiordomo. Questa è una grandissima differenza tra il romanzo e il film, perché le prime immagini del romanzo sono di grandissima serenità: un maschio adulto che culla tra le braccia un bambino, quelle del film di irrequietezza d’animo e di corpo. Due biglietti di visita completamente diversi che introducono in due storie dissimili: I Vicerè di De Roberto e “La storia di Consalvo” di Faenza …  Il film mostra un Consalvo bambino vittima, in realtà nel romanzo troviamo lo stesso personaggio Uzeda tra gli Uzeda, nel Quarto Capitolo della Prima Parte del romanzo, De Roberto denota la sua spietatezza e curiosità per gli intrighi familiari, nonostante la severità paterna. [13]Bisognava lasciarlo fare. Se lo contrariavano, diventava una furia: digrignava i denti, gridava come un ossesso, rovesciava quanto gli capitava fra le mani. In verità il principe educava severamente il figliuolo, non gliene passava nessuna liscia; ma, da un’altra parte, non scherzava neppure con le persone di servizio se queste, messe con le spalle al muro e perduta la pazienza, rispondevano male al padroncino.”

Nel film di Faenza si vede la vecchia principessa morente che scambia il servo Casimiro con il figlio minore Raimondo tanto amato. In questa scena vi è fedeltà con il romanzo. E’ motivo del conflitto per gli averi insito nella famiglia Uzeda, mentre il potere per il potere è esterno e interno alla famiglia. L’ammaina bandiera di palazzo Uzeda è di notte e in solitudine, mentre nel romanzo è in pieno giorno e su gli occhi di tutti. Una precisazione, a mio avviso, di grande interesse è la datazione degli eventi. Nel romanzo la morte della Principessa avviene nel maggio del 1855. Nel film proprio all’inizio mentre scorrono le immagini della punizione corporale di Consalvo si legge: “Catania 1853”. La differenza è sostanziale anche perché mentre nel romanzo nel 1855 aveva sei anni, nel film (1853) ha dodici anni[14].  “Il principino comprese che lo mandavano via. A sei anni, era curioso più di don Blasco.”[15] Una brutta forzatura nella trasposizione, per fare apparire vittima di un padre burbero, ma non tanto crudele tale da infliggere una punizione ad un bambino di sei anni. Consalvo è stato invecchiato di otto anni per inquadrare le difformazioni storiche che contiene il film. La cronologia non è innocente serve a confondere storicamente lo spettatore, non vi sono più altre date e Consalvo mostra sempre la stessa età quando già si sono rotte le acque:

[16]La vigilia della votazione, mentre appunto il candidato dava udienza ai suoi fautori, il cameriere del marchese venne di corsa a chiamare il principe e la principessa, perché Chiara era sul punto di partorire.”

Nel gennaio del 1861. “Il Regno Borbonico sta giungendo al termine”, Rivoluzionari, liberali democratici, Piemontesi, una grande confusione anacronistica e senza significato nel 1853 o 1855. Bisognava essere non solo profeti ma essere stati viaggiatori del tempo, per potere capire con tutta quella lucidità gli eventi futuri. Vi è motivo di credere che c’è un intento preciso, cancellare la storia, cancellare quella parte scomoda, ancora oggi, perché parla di Siciliani in lotta per la loro sovranità.

Ogni qual volta che si tradisce la verità storica è uno smentire e occultare la vera arte del verismo siciliano, pertanto l’opera derobertiana stessa.  De Roberto, come Verga e Capuana, a costo di entrare in paradosso con le proprie convinzioni, è rimasto fortemente fedele alla verità storica. Il film di Faenza ha tradito,  non solo l’Autore e il suo romanzo ma tutto il Popolo Siciliano che si vede sottratto parte della propria dignità storica della propria Nazione, cancellata da una brutta e crudele colonizzazione  piemontese.

Il film di Faenza continua nella sua consequenziale storica. Dopo il funerale della principessa e la lettura del testamento, la voce narrante informa che:

Ai primi di luglio, a Catania, era scoppiato il colera. Fu deciso di rifugiarci al Belvedere, la nostra masseria sull’Etna, dove il colera, come diceva mio padre, non attacca.”

Quindi, nella realtà storica, siamo nell’estate del 1854. Nel film si vede in cammino la carovana di carrozze che per strade poderali e muretti a secco fin quando arriva alla masseria. Questo episodio è narrato nel romanzo nella Parte Prima del Capitolo Quinto. La masseria sembra, tutt’al più, una villa stile liberty, con le due scale esterne che portano al primo piano, con il suo giardino inglese e una cantina con delle botte vuote e non adoperate da tempo. Il giardino trova una chiara trasposizione del romanzo: [17]Un tempo, sotto il principe Giacomo XIII, questo era quasi tutto un giardino veramente signorile; amante dei fiori, il principe aveva sostenuto per essi una delle tante spese folli che erano state causa della sua rovina: (…) egli giudicò che la coltura della vigna poteva vantaggiosamente esser sostituita da quella degli agrumi: quindi sradicò, in quel tratto del podere non ancora trasformato in giardino, tutte quante le viti per piantare aranci e limoni. Così le spese sostenute da suo nonno per costruire il palmento e la cantina andarono perdute. Ma, venuta donna Teresa, ogni cosa fu messa nuovamente sossopra. I fiori essendo «robe che non si mangia», rose e gelsomini furono divelti, i pilastri ridotti a mattoni, la serra trasformata in istalla pei muli; e il vino avendo maggior prezzo degli agrumi, i bei piedi d’aranci e di limoni, tirati su con tanta fatica, furono sacrificati alle viti. Restò appena quattro palmi di giardino, tra il cancello e la casa, e tanti piedi d’agrumi quanti bastavano a far la limonata d’estate. Così tutte le somme buttate nel pozzo furon buttate nel pozzo davvero. Ora, appena giunto, il principe ricominciava anche qui l’opera innovatrice iniziata al palazzo. Per verità, egli non toccava il podere, giudicando, come la madre, che le rose tisicuzze arrampicate sull’inferriata e sui muri della villa bastassero pel godimento della vista e dell’olfatto, e che i cavoli, le lattughe e le cipolle stessero molto meglio nelle antiche aiuole fiorite: ma, chiamati i manovali, ordinò che buttassero giù muri e dividessero stanze e condannassero porte e forassero nuove finestre.

Tutto fa pensare tranne ad una efficiente masseria di padroni esigenti come gli Uzeda. Faenza è affezionato a questa location molto sfruttata cinematograficamente anche da molti altri registri. Si tratta di Villa Fegotto a Chiaramonte Gulfi a dodici chilometri da Ragusa. Il regista, proprio in questa location, ha girato,  nel 1996 buona parte del film “Marianna Ucria”[18], tratto dal romanzo La lunga vita di Marianna Ucrìa[19] scritto da Dacia Maraini[20]. E’ stato pure set per diversi episodi della serie televisiva Il commissario Montalbano, (Il cane di terracotta[21]) tratti dai racconti di Andrea Camilleri.

Vi è un parallelismo cinematografico con Storia di una capinera del grande Franco Zeffirelli[22]. Trattasi dello stesso periodo storico, l’estate del 1854, la fuga da Catania, ormai soggiogata dal colera, dei benestanti nei propri poderi alle falde dell’Etna. Vi è un amore ricambiato del grande Maestro verso la Sicilia e viene facile notarlo nelle sue scene. I paesaggi narrano la bellezza accentuando la specificità siciliana dei luoghi. Gli ambienti architettonici scelti con cura nella loro bellezza artistica narrano la storia del Popolo Siciliano come vicissitudine culturale. Zeffirelli mentre era sul set del film Storia di una Capinera[23], stava riprendendo dentro l’ex convento[24], a Catania in via Vittorio Emanuele, in una intervista alla giornalista Giovanna Grassi[25] del Corriere della Sera del 13 maggio 1993, disse:

“Girare il film in quest’isola è un atto di fiducia, una candela di speranza nei confronti della nostra Sicilia, è un debito ideale per una terra alla quale dobbiamo arte e cultura. Non solo piovra, delitti, sconfitta degli onesti, omertà. Anche il giovane Verga che amava la letteratura romanzesca e romantica di stampo francese scriveva “storie di vita”, come questa vicenda di una malmonacata fanciulla, sacrificata dall’egoismo familiare. Il tema diderotiano e manzoniano si mescola a diagnosi sociali e umane che restano valide, oggi come ieri. Verga non è mai una lettura rasserenante. E, poi, contro la falsa tematica del sesso e dell’erotismo, che sempre più spesso oggi maschera la volgarità, io voglio raccontare il bisogno dell’amore assoluto”.

              Alla domanda della giornalista se vi era un ritorno al binomio “cinema e letteratura”?

 ”Le mie scelte di lavoro sono spesso ancorate a un istintivo bisogno narrativo e creativo. Invece di scrivere copioni “straccioni”, dovremmo rileggere i nostri scrittori. Penso sempre più spesso a Pratolini, al suo “Un eroe del nostro tempo”, a esempio. Nei nostri scrittori, non nella tv, si nascondono le nostra culture elitarie o nazional popolari. Non certo altrove: dopo il referendum c’è stato chi, molto in alto, ha citato versi di Mameli scambiandolo per Berchet. Se c’è chi usa “l’epos” a sproposito, io dietro una cinepresa posso ben utilizzare il romanticismo d’amore!”. (…) “Il cinema ha bisogno di fiabe e di storie crudeli. Ha bisogno di estetismo e contenuti, di trasognamento. E, dopo l’asciuttezza di “Amleto”, volevo confrontarmi con una storia d’incantamento di sentimenti. Inoltre, nel film serpeggiano temi in controluce attuali”.  

        Quali?-  Chiede la giornalista  

“In una Sicilia dove le ville stanno andando in rovina, anche se si avverte il recupero dei valori dell’architettura da qualche nuovo fermento, “Storia di una capinera” riproporrà la bellezza del nostro patrimonio artistico e, quindi, anche lo scempio che poi ne è stato fatto. Faremo un libro fotografico sulle molte ricerche svolte tra le ville di Val di Noto, di Acitrezza”. – Restaurare una villa costa miliardi e anche a Catania non si trovano le case, gli affitti sono un furto, le persone sono costrette a vivere come pendolari… “Vedere un film può talvolta significare fermarsi e contemplare, fermarsi e interrogarsi”

Parole che fanno molto riflettere e attinenti al bisogno continuo della Sicilia di promuoversi per ciò che oggettivamente è con lo stesso strumento, il cinema, che gli ha addossato i mali del mondo tutto.

La scena de I Viceré di Faenza, dei cavalli allo stato brado, il fiumiciattolo che scorre rigoglioso, gli alberi, mentre Raimondo e la contessa Fersa passeggiano sul ponte, ha questo obiettivo e richiama moltissimo le tante scene di Storia di una capinera di Zeffirelli. Una scena che non è derivata da una trasposizione diretta del romanzo, ma da una necessità di struttura narrativa filmica. Consalvo osserva di nascosto la caduta di un fazzoletto a donna Isabella Fersa lo recupera per darlo allo zio Raimondo, in un momento inopportuno, in presenza della moglie Matilde. Ma vi è la necessità del regista a testimoniare la bellezza naturale di quei posti.  

Dopo il colera, vi è l’arrivo in convento di Consalvo, una autentica punizione. Consalvo, nella scena precedente viene rappresentato legato in catene come un cane esasperato con una forchetta pronto ad infilzarla nel proprio collo. Una storia che non ha niente da spartire con il romanzo, dove il principe Giacomo ha un accanimento oppressivo nei riguardi del figlio, un quadro avvilente di spicciolo cinema di forte tinte contrastanti nei ruoli tipici del padre orco e del figlio, bambino, vittima. Quanto l’Autore chiarisce con precisione che è per l’istruzione e l’educazione del figlio senza sborsare soldi per i maestri. Tanto che nella visita di Consalvo alla famiglia nel Capitolo Sesto della Prima Parte troviamo:

[26]«Ti faresti monaco?» gli domandò il principe, per chiasso. «Ci staresti sempre, al convento?»

«Sì,» rispose egli, per non dargliela vinta. «È bello stare a San Nicola!…»

Inaccettabile l’immagine boccaccesca dei monaci Benedettini e di tutto il monastero è riduttiva nei minimi termini. Non tradisce  l’arte di Michelasso, che descrive De Roberto è riferito al tradimento delle regole, alla abbondanza dei cibi, all’ozio, alla concessione di alloggi di proprietà dei Benedettini alle loro mantenute:

“La notte se n’escono per andare a trovar le amiche, e certe volte le conducono con loro, nello stesso convento, avvolte nei ferraioli: il portinaio finge di capire che son uomini!… Vostra Eccellenza che c’è dentro non le ha mai viste?…” Non aveva visto nulla, lui; e tutte quelle cose apprese in una volta lo stupivano e lo turbavano.  “Ma non è peccato?…”[27]

      Il narratore di questi fatti al giovane Consalvo è Salvatore, nuovo mozzo di stalla di casa Uzeda. Faenza ha preso spunto da queste righe però Consalvo è testimone diretto. La scena del film presenta donne coperte da mantelli e sotto seminude, don Blasco e la sigaraia a letto, con il seno scoperto, scene lascive e dissacranti per il luogo storico e religioso del San Nicola. Vera la scena dei Cappuccini pagati dai monaci Benedettini per pregare. Ma l’abbinamento tra la preghiera e l’ingresso delle donne seminude crea il binomio sacro e profano per evidenziare la blasfemia di quella realtà religiosa. Posso ben capire l’esigenza di spettacolo di Faenza, ma mi sembra un inveire inopportuno alla Chiesa in quanto istituzione.  Anche se il ferraiolo viene utilizzato nella Chiesa Cattolica si indossa sopra l’abito talare a completamento dell’abito ordinario. Pertanto come mantello forse De Roberto simboleggia il traviare la sacralità istituzionale della Chiesa.  I Benedettini hanno avuto il suo ruolo storico di rilevante importanza in una città come Catania, avendo dato il loro contributo politico, culturale ed economico oltre che religioso.[28]

Tanto che il professore Enrico Iachello richiama l’attenzione culturale che dopo il restauro dell’edificio del monastero benedettino, occorrerebbe un restauro all’immagine dei monaci Benedettini:

[29]Se il recupero dell’edificio, la sua restituzione all’antico splendore – come recita l’atto di donazione del Comune – da parte dell’Università ha posto fine al suo scempio, non così è stato per l’immagine dei nostri monaci. Al restauro non ha fatto seguito (responsabili gli storici, paghi o intimiditi dagli aneddoti piccanti a lungo sedimentati) una storia ‘laica’ dei benedettini di Catania che possa restituircene e spiegarcene presenza e ruolo nella storia della città.

        E’ pure vero che De Roberto in una sbottata di don Blasco i quali rispondevano che avrebbero avuto anche loro la libertà con la chiusura e la confisca del convento da parte del Governo chiarisce come vengono definiti in città:

“Vi manca la libertà…? Siete chiusi in fondo a un carcere, poveri disgraziati?… Che libertà vi manca, d’ubriacarvi come tanti otri? di crepare dalla sazietà? Di mantenere le vostre ciarpe?… Non lo sapete, no, come vi chiama la gente?…» E spiattellò loro in faccia l’epiteto popolare col quale erano designati da tutta la città: «Porci di Cristo!…»[30]

Ritroveremo questa espressione suggerita dalla crudeltà di Consalvo nel quartiere di San Nicola, dove si aggirava, fra’ Carmelo, ormai fuori il convento, incontrandolo lo tormentava chiamandolo:

«Padre Priore!… Padre Abate!… Dove sono i porci di Cristo?…»[31]

Nel film di Faenza Consalvo incontra fra’ Carmelo, ma ne prova pietà, è buono, non lo prende in giro anzi gli elargisce del denaro e riceve la sua benedizione.

Rimane chiaro che il mettere in evidenza il dubbio della fede, la credibilità stessa del ministero del clero, magari nel centrare nello schermo in una trasposizione la considerazione del giovane Consalvo: “Con qual animo udiva adesso le prediche severe dei monaci, dopo aver saputo la loro vita!”[32] può sicuramente stimolare un intervento del Vaticano per richiedere una censura. Non è, ripeto, il personaggio don Blasco, nel cinema e nella letteratura ve ne sono ancor più scandalosi, ma la considerazione di Consalvo è la critica al cuore del clero, forse proprio ciò suscitò l’intervento del Vaticano nello sceneggiato Rai degli anni ’80.

Manca, a mio avviso, la scena splendidamente barocca narrata nel Capitolo Sesto della Prima Parte. Visto che l’altra scena fortemente barocca del funerale della Principessa, è risultata molto impoverita e non si è percepito per niente dalle immagini il barocco siciliano, che ancora, noi Siciliani, ci trasciniamo nel tempo presente, in una semplice cerimonia anche di prima comunione, o di matrimonio. Capisco che ci sono delle scelte da fare e dei tagli alla spesa della produzione, ma era l’occasione giusta per una pagina immemorabile del cinema siciliano, scusate, italiano. Mi aspettavo che Faenza ne approfittasse nel suo film ed ho atteso invano, quando poi vidi crescere Consalvo e Giovanni per finire persi in quel carosello di bandiere rosse per l’arrivo di Garibaldi, allora ho perso le speranze. Perché sinceramente ci sarei voluto essere in quella celebrazione della Settimana Santa nella chiesa di San Nicola e questo è possibile solo con la magia del cinema.

Questo carosello di bandiere rosse, forse più funzionali tricolori, mi ricorda un altro film: La balia[33] di Marco Bellocchio[34] del 1999, tratto liberamente dalla omonima novella del grande Pirandello. E’ stato un autentico tradimento della letteratura sia nei significati politici che storici. [35]“… ne conserva il plot di base modificando tutto il resto” Quello che in Pirandello era il senso della vita tra vincenti e perdenti, diventa uno stupido senso politico di una classe dirigente che nel film (il medico) da la conoscenza all’ignorante (la balia). Una carità che nella novella è solo crudeltà, perché il latte del figlio del rivoluzionario povero e in galera è servito per allattare il figlio dell’avvocato socialista e benestante. Tutto poi ha la sua centralità nel carosello di bandiere rosse e gendarmi a cavallo, fuori senso letterario ma funzionale a livello propaganda, quella marchetta al potere che ha finanziato il film come opera culturale. La novella si conclude, invece, così:

[36]«L’eguaglianza tra gli uomini secondo il socialismo, come diceva il Malon, si deve intendere quindi in un duplice senso relativo: 1° che tutti gli uomini, perché tali, abbiano assicurate le condizioni dell’esistenza; 2° che quindi gli uomini siano uguali nel punto di partenza alla lotta per la vita sicché ognuno svolga liberamente la propria personalità a parità di condizioni sociali; mentre ora il bambino che nasce sano e robusto, ma povero, deve soccombere nella concorrenza con un bambino nato debole ma ricco…»

– Signor Ramicelli!

– Avvocato!

– Che ha? È impazzito? Perché ride cosí?”

De Roberto con grande teatralità, o, in questo caso, cinematografia e umorismo, inscena la funzione:

[37]“Durante un mese la chiesa fu sossopra, per la costruzione del Sepolcro, in fondo alla navata di sinistra: chiusa da un grande impalcato, con le finestre sbarrate, tutta adorna di candelabri di cristallo splendenti come blocchi di diamanti, e di vasi col grano lasciato crescere al buio perché non prendesse colore, e popolata di statue rappresentanti la Sacra Famiglia e gli Apostoli, era veramente irriconoscibile. Il giovedì, a terza, tutto il monastero scese in chiesa, pel Pontificale, con l’Abate alla testa, a cui i novizi portavano il bacolo, la mitra e l’anello e i caudatari reggevano lo strascico. L’apparato era quello della Regina Bianca, tutto di drappo rosso ricamato d’oro, e sull’organo maestoso di Donato del Piano, tenori, bassi e baritoni scritturati a posta cantavano il Passio che la folla pigiata stava a sentire come al teatro.”

Luci, profumi e musica, sembra che la macchina da presa abbia eseguito una panoramica. Vi sono alcuni tagli d’immagini inquadrando gli Uzeda nei loro posti di privilegio: “il principe e il conte con le mogli, donna Ferdinanda, Lucrezia, Chiara col marito” Un altro taglio per una immagine in primo piano, è un particolare:  la sua (del piccolo Consalvo) cotta candida e insaldata a mille piegoline, lavoro speciale delle Suore di San Giuliano. Non manca la musica per tutta la chiesa del potente e meraviglioso organo e quando esso taceva si udiva un ronzìo come d’alveare, un urtarsi di seggiole, lo stropiccìo dei passi”.  Vi sono pure i soldati con i loro fucili e baionette . L’Abate chinato lava i piedi ai dodici poveri che impersonano gli Apostoli “– seconda lavatura; essendo la prima già fatta in sagrestia affinché Sua Paternità per lavar quei piedi non s’insudiciasse le mani”

Ecco che un mormorio più accentuato segna la variante, il conte Raimondo si sposta per andare verso donna Isabella Fersa, vestita di nero, come le altre signore, ma un abito così ricco da sembrare da ballo. Sotto braccio in mezzo a due file di curiosi Raimondo porta donna Isabella accanto alla povera Matilde appena rimessa dalla lunga degenza, l’abito di lana nera da maggiore risalto al suo viso bianco pallido.  Una contemporaneità moderna e soprattutto cinematografica:  

Poi, giusto in quel punto Gesù moriva: la chiesa oscuravasi repentinamente, i fratelli rovesciavano i candelieri sugli altari, toglievan via le tovaglie bianche e le sostituivano con quelle violacee, avvolgevano d’un velo la croce; e i monaci anch’essi, lasciati i paramenti di festa, indossavano quelli del corrotto. [38]Nella penombra, i ceri risplendevano con fiamma più viva, e il Santo Sepolcro era una raggiera, dalle tante torce, dalle tante lampade, dai tanti riflessi dei cristalli e degli ori. (…)Matilde fece col capo un gesto ambiguo. L’organo intonava il Miserere, e il canto doloroso era pieno di sospiri profondi, di lunghi lamenti che facevano echeggiare ogni angolo della chiesa scura, di schianti terribili per cui l’aria tremava, di gemiti lunghi come quelli del vento invernale. Pareva che il mondo dovesse finire, che non vi fosse speranza più per nessuno; Gesù era morto, era morto il Salvatore del mondo; e i monaci, a due a due, con l’Abate a capo, scendevano dall’abside, giravano per l’immensa chiesa tra due file di soldati che contenevano la folla e presentavano le armi capovolte; poi l’Abate deponeva l’Ostia al Sepolcro.”

Era morta l’ultima speranza di Matilde di mantenere ancora in piede il suo matrimonio.

Sicuramente è una pagina memorabile della letteratura mondiale, per la sua modernità e grandezza artistica.

In questa “Storia di Consalvo” di Faenza, vi è l’alienamento profondo del risorgimento siciliano, il tradimento della storia sia de I Vicerè di De Roberto che da quella reale. L’Ottavo Capitolo della Prima Parte del romanzo è un opera così grande letterariamente intessuta tra la storia reale e la virtuale da creare un documento, una vera traccia di studio per scoprire evento dopo evento i fatti.

L’occasione straordinaria del Nono Capitolo nella Prima Parte: la nascita dei due gemelli mostri: dell’Ultimo Uzeda e del duca D’Oragua deputato italiano è andata miserabilmente sprecata, il Faenza poteva veramente mettere in immagini delle pagine di grande letteratura, nella corrispondenza degli eventi che sono stati strutturati da De Roberto con un linguaggio assolutamente cinematografico. Nel film ha preso posto la banale narrazione dell’infanzia di Consalvo, per strumentalizzare tale evento solo per raccontare la goccia che ha fatto traboccare il vaso del Principe padre il quale prese la decisione o colse l’occasione per spedire Consalvo in convento.

Quando nel film viene inscenato, per soddisfare la curiosità degli spettatori, e perché no, anche dei lettori, l’apertura dell’armadio e così svelare in tutta la sua orripilante mostruosità la creatura nell’ampolla di vetro, si ha la grande delusione. Gli spettatori che non hanno letto il romanzo non vedono niente di mostruoso solo un qualcosa d’informe. Chi ha invece letto e sa, cerca inutilmente le tre gambe trischeliche e l’occhio ciclopico che non trovano. Non posso accettare che chi ha scritto la sceneggiatura e i vari consulenti non abbiano messo alla attenzione del Faenza questa specifica realtà letteraria, la metafora dell’aborto politico della Sicilia italiana.

L’Introduzione[39] l’avevo scritta prima del film,  ed io per primo avevo accennato a questo morboso desiderio di andare ad aprire quell’armadio, ora mi immagino la delusione … non solo di non trovarlo vivo, ma soprattutto la scomparsa dell’umanoide triskele, sostituito con uno informe, un pezzo di carne senza alcun significato. E’ la storia della Sicilia e del suo Popolo che si vuole svuotare di significato, ormai da tempo. E’ questo che ha fatto Faenza, non so se volutamente, ma ai suoi livelli niente è per caso.   Mi sento un guardiano della cultura e della storia del mio Popolo, con i miei miseri mezzi, con i miei grandi limiti, ma vigile ad ogni sopraffazione. Per questo motivo è importante nell’azione politica un continuo riemergere, valorizzare il passato. Capisco bene coloro che parlano di presente e dicono basta alle parole, insisto l’importanza di non cancellare la propria storia, la propria cultura per non morire del tutto.

Il salto dal 1855 al 1860 del film è un salto nel buio. Si vedono i padri Benedettini terrorizzati dall’arrivo di Garibaldi, quanto questo non corrisponde a realtà. Un soldato dell’esercito borbonico solo accerchiato dai Catanesi e ucciso con una fucilata. Quando invece vi è stata una vera battaglia di popolo tra Napoletani e Siciliani. Visto così il risorgimento siciliano è una barzelletta senza significato, il solito carosello di bandiere rosse a non finire un cartello gigante con l’icona di Garibaldi davanti la cattedrale dove vilmente viene ucciso e preso a calci dal popolo il soldato borbonico sotto gli occhi di don Blasco che si converte alla causa garibaldina.

La scena in casa della Sigaraia, sulla dipartita di don Blasco, è così verista che ad un certo punto non solo ho avuto l’immagine perfetta dell’ambiente ma ho sentito pure gli odori, perché il moribondo ha avuto fatta l’applicazione delle sanguisughe, non è una esagerazione:

“Tutti entrarono nella camera del morto. Era immobile, stecchito, con gli occhi chiusi, con le tempie butterate dai morsi delle mignatte. L’odore nauseante del sangue appestava la camera, come una beccheria; e c’era per terra e sui mobili una confusione straordinaria: panni disseminati qua e là, catinelle piene d’acqua, caraffe di aceto. La Sigaraia, dischiusa immediatamente la finestra perché l’anima del Cassinese potesse volarsene difilata in Paradiso, disponeva, singhiozzando, due candele sul comodino.”[40]

       Nel film di Faenza la dipartita di don Blasco è assolutamente diversa. Prima differenza la scena si chiude con la morte dell’agonizzante, seconda il testamento c’è ed è una burla a tutto l’apparentato visto che è totalmente a favore del fratello bastardo fra’ Carmelo nominandolo erede universale. Mentre nel romanzo di De Roberto, il testamento non c’era e allora ne hanno prodotto uno falso Garino con il consenso del principe Giacomo a loro favore, che sarà impugnato da gli altri parenti. Ma nello stesso tempo è una certa forma di redenzione di don Blasco il quale scegliendo fra’ Carmelo ha scelto la fede in quanto benedettino imperturbabile dagli eventi storici. Quindi un don Blasco protagonista e non semplice figura immobile. La chiusa di questa scena il regista l’ha voluta espressa dalla voce narrante di Consalvo che accentua sul fatto dell’immutabile condizione sociale tra esteriorità ed interiorità dei protagonisti della vita familiare, sembra metafora della vita siciliana tutta. Gli Uzeda pregavano per la morte di don Blasco ma in realtà pensavano ai suoi averi, a quella ricchezza accumulata e che dovevano spartire tra loro. Il tutto, dal mio punto di vista, è stato trasformato in una tale ovvietà da far dimenticare quella grandezza narrativa di De Roberto sulla morte che coglie di sorpresa un uomo attaccato alla vita, don Blasco, come se non dovesse morire mai, tanto da non curarsi di lasciare le sue ultime volontà espresse.  E allora mi viene da chiedere a Faenza: dov’è l’odore del sangue e dell’aceto? Dov’è il disordine del momento quando una casa viene colta di sorpresa dalla visita della morte?

Molti non leggeranno il libro, vedranno solo il film, crederanno che è ciò quello che ha scritto De Roberto nella sua Opera, crederanno che quella è stata la storia vera, e non sapranno mai che Faenza è stato solo un servitore, pagato, dal “potere forte” e la sua è solo opera propagandistica massonica.

Così anche il film di Faenza tradisce la letteratura del romanzo sulle vicende tra Teresina e Giovannino. Mai Teresina avrebbe dato convegno al suo ex innamorato nel dentro di una chiesa, perché la religiosità del personaggio molto sentita e autentica. Inoltre la compressione degli eventi ha tolto ciò che vi era di orginale. In altre parole, quando Giovannino e Teresina si incontrano lei è già incinta del terzo figlio, quindi un percorso di vita coniugale già avviato, non vi è la melodrammaticità dei romanzetti d’appendice. Come ad esempio il suicidio di Giovannino non avviene mentre vi erano i festeggiamenti del matrimonio tra il fratello e Teresina, bensì mentre tutta la famiglia era dal principe Giacomo che stava morendo e poi morì. La meschinità nel film della prima notte di nozze con il morto “sotto il letto” ha avuto il suo effetto scenico ma ha reso la trama banale e meschina. Nella letteratura di De Roberto vi è un dramma nel dramma, un evento triste sormontato da un altro e non il contrasto tra l’allegria e la tristezza. Questi tradimenti di trama sono troppo gravi per potere concedersi la visione del film prima della lettura del romanzo, quindi sconsiglio vivamente di farlo. In tale visione non vi è nessunissimo arricchimento culturale ma disinformazione letteraria. La stessa scena del superstizioso principe Giacomo, nel romanzo è protagonista la chirurgia di quei tempi e non dei religiosi che esorcizzavano il male bruciandolo in mezzo a tormenti atroci e magiche preghiere.

Il principe Giacomo muore implorando al figlio di togliere il malocchio, quando nel romanzo vi è una spettacolarità di luci nei volti dei personaggi e scenica con l’alzata del braccio del prete al capezzale unica. Consalvo sembrava coerente con il suo pensiero politico di uomo di sinistra asserendo al padre morente che la causa era la malattia e non il suo malocchio. In realtà Faenza sembra volere dare dignità ad un personaggio che non ne ha alcuna, perché Consalvo agisce in ogni suo pensiero e in ogni evento nella trama del romanzo fedele solo al ruolo che gli impone il suo opportunismo. Mentre Faenza nel discorso programmatico nel Meeting elettorale al San Nicola il principe di Francalanza lo fa iniziare con “Signori Cittadini,” nel romanzo inizia “Concittadini!”[41]. Vi è una bella differenza politica. Alcuni studenti che cercavano di prevedere come avrebbe iniziato il suo discorso scommettevano su “signori”, altri dicevano “cittadini” e altri ancora “signori cittadini”. La scelta di Consalvo nel romanzo è spostata più a sinistra, senza alcun compromesso a sorpreso tutti. Forse il “Signori Cittadini” è più consono ad Antonio Paternò marchese di San Giuliano, ma non al Consalvo del romanzo. Lui non mitiga tra il popolo e l’aristocrazia, lui è l’aristocratico che si abbassa al popolo per innalzarlo. Tale è e tale rimane, perché gli aristocratici sanno che è falso, il popolo sa’ che è potente e lo vuole tale. Il suo elettorato così si espande. Il ripudio che Consalvo ha verso il popolo nel film non si nota. Come non si è notata la presenza della mafia che sostiene la sua candidatura. Mentre De Roberto lo esplicita pienamente Consalvo si rivolse agli antichi compagni di bagordo, alla gente con la quale aveva fatto vita, un tempo, nelle taverne e nelle case di tolleranza: ceffi spaventosi, pallidi bertoni con la faccia tagliata da cicatrici fecero la guardia al suo palazzo, alla sua persona; si disseminarono nei luoghi equivoci, minacciando, intimorendo… «Il candidato di Francesco II ha sguinzagliato la mafia per tutto il collegio allo scopo di spaventare gli onesti cittadini,» denunziarono i fogli avversari”[42].  Faenza si è perso una grande occasione quella di denunziare la funzione della mafia a servizio della politica è iniziata agli albori dell’Italia.

Ho trovato al quanto grottesca la scena di Benedetto Giulente che si tira la protesi della gamba e la scaglia via, poi gli schiaffi alla moglie da uno come nel romanzo nel film sono tre. Ripeto saranno modifiche che nella trasposizione dovute per motivi di incrementare la visibilità, però imbruttiscono tanto. Sembra volgarizzare ciò che vi è di bello nella letteratura. Sembra che penalizzino l’opera del De Roberto e quindi scelte eccessive, sempre secondo il mio gusto. Ma ormai la società tente di continuo al brutto, quindi occorrerebbe una controtendenza di chi detiene un discreto successo nelle varie arti di comunizione.

Mentre per la fine del film con Cosalvo sempre più marchese di Sangiuliano, con i suoi successi nel Parlamento Italiano denuncia il problema genetico dell’Italia: una nazione senza popolo.

 

 

PROPRIETA’ LETTERARIA RISERVATA

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[1] Roberto Faenza (Torino, 21 febbraio 1943) è un regista e sceneggiatore italiano. Si laurea in Scienze Politiche e si diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia. Debutta nella regia nel 1968 con un successo internazionale, Escalation. . Nel 1978 realizza Forza Italia!, Viene censurato e ritirato dalle sale e citato nel suo memoriale da Aldo Moro come indicazione per capire i compagni di partito, Così decide di trasferirsi in USA. Nel 1993 dirige Jona che visse nella balena per cui è premiato con il David di Donatello come miglior regista e con l’Efebo d’oro.. Rientrato in Italia nel 1997 prende a insegnare “Sociologia della comunicazione” all’Università di Pisa e di recente “Teoria e tecniche del linguaggio cinematografico” alla Sapienza di Roma. Si interessa della Sicilia con Marianna Ucria tratto dal romanzo “La lunga vita di Marianna Ucria” di Dacia Maraini, e con: Alla luce del sole, sulla vita di Don Pino Puglisi, il parroco assassinato a Palermo dalla mafia nel 1993 e interpretato da Luca Zingaretti  (Nomination European Film Award Miglior Regista 2005, Premio David Giovani Miglior Film 2005, Premio Vittorio De Sica 2005, Premio migliore attore protagonista al Festival di Karlovy Vary 2005).

[2] Una produzione Jean Vigo Italia. In collaborazione con Rai Cinema – Institut del Cinema Català (ICC) – VIP Medienfonds2 in associazione con Rising Star.  Con la partecipazione di Regione  Siciliana,  Ministero dello Sviluppo Economico.  Con il sostegno di Media Distribuzione 01 DISTRIBUTION

 

[3] Sandro Bolchi nato a Voghera il 18 gennaio 1924 è morto a  Roma il 2 agosto 2005. Mi viene voglia di scrivere che Bolchi in quanto regista è stato portatore della cultura alle masse, protagonista della grande Televisione di Stato, sono indimenticabili ed ancora oggi da riproporre:  I miserabiliI promessi sposiAnna KareninaI fratelli Karamàzov e I Demoni di Fedor Dostoevskij Il crogiuoloIl mulino del Po, La coscienza di Zeno, di Italo Svevo, Le mie prigioni, e Assunta Spina. E’ il grande “regista degli sceneggiati televisivi”.

[4] Lucio Mandarà è nato a Laurana, Fiume oggi Rijeka, Croazia, il 2 dicembre 1923. in Croazia, da padre siciliano e da madre austriaca, viveva Santa Croce Camerina in provincia di Ragusa,  è morto a Roma  il 16 marzo del 2009. Per suo espresso desiderio le sue ceneri sono state sparse “no mari ra sicca”. Molto conosciuto per “L’amaro caso della baronessa di Carini”, realizzato nel 1975 con la regia di Daniele D’Anza. Altre sue famose sceneggiature sono: “Cristoforo Colombo”, “Le mie prigioni”, “Il giovane Garibaldi”, “Il segno del comando”, “Petrosino”, “Majakovskij”, “La Medea di Porta Medina”, “Progetto Atlantide”, “La vigna di uve nere”, “La donna della luna”, “Il segreto del Sahara”, “La scalata”, “Fuga dal Paradiso”. Amava anche la fantascienza e il genere “noir”. Un altro grande sceneggiatore della tv di stato seppure non molto citato.

[5] Gesualdo Bufalino è nato a Comiso il 15 novembre 1920 dove visse e morì il 14 giugno 1996.  Fu insegnante liceale, e nel 1981, all’età di 61 anni, grazie al convincimento del suo amico Leonardo Sciascia, incoraggiato da Elvira Sellerio  anni debuttò con il romanzo Diceria dell’untore,  l’opera vinse lo stesso anno il Premio Campiello. Bufalino fu principalmente letterato e grande uomo di cultura, riuscendo nello stesso tempo a vivere la sua quotidianità.

[6] Margherita Ganeri è nata a Cosenza il 19 Giugno 1965, docente di filosofia e lettere, dell’Università della Calabria. Leggo dal suo curriculum quanto segue:  “Laurea in Lettere conseguita in data 8 novembre 1988 con 110 e lode presso l’Università  degli Studi di Siena, con una tesi di laurea intitolata: Lectores in fabula: teoria narrativa e pratica della scrittura nel “Nome della rosa” di Umberto Eco. Titolo di Dottore di ricerca in “Scienze letterarie: retorica e tecniche dell’interpretazione” presso l’Università  degli Studi della Calabria, conseguito in data  12 Dicembre 1995, con una tesi intitolata: Il romanzo storico in Italia tra l’Ottocento e il  postmoderno: il dibattito teorico, le tendenze storiografiche e lo studio di tre “casi”.  Diploma di formazione post-laurea in Didattica della letteratura, per la partecipazione a un corso annuale, a numero chiuso, con concorso d’accesso per titoli ed esame finale, Università  degli Studi di Siena, anno accademico 1995-1996. Attribuzione della qualifica di Collaboratore ed esperto linguistico per la docenza della  lingua italiana a stranieri, conseguita in seguito al superamento di un concorso per titoli ed esami, presso l’Università  per Stranieri di Siena, maggio 1997. Conseguimento del ruolo di Ricercatore universitario, (Letteratura italiana), 23 aprile 1999.” Ha scritto su Federico De Roberto moltissimo ad esempio: -L’Europa in Sicilia. Saggi su Federico De Roberto, Le Monnier, Firenze, 2005.Perte del libro ” L’attualità dei Vicerè”. In Roberto Faenza. I Vicerè, Montesi A., Palanchi L. (a cura di), : Gremese, 2007;  ” Le fonti dell’Imperio di Federico De Roberto”. In Narrare la storia, Milano: Mondadori, 2006;  E’ stata vincitrice del concorso internazionale Narrare la storia: dal documento al racconto, bandito dalla Fondazine Bellonci di Roma, con un progetto di ricerca su L’Imperio di Federico De Roberto nel 2002. Molti sono gli articoli di grande interesse della Prof.

[7] Federico De Roberto e la modernità letteraria di Margherita Ganeri  nella NOTA n°3

 

[8]ibidem

[9] Ugo Pirro, all’anagrafe Ugo Mattone è nato a Battipaglia il  26 aprile 1920, morì a  Roma il 18 gennaio 2008, è stato uno dei più grandi  sceneggiatori  fu, nominato a due premi Oscar per il miglior film straniero: nel 1971 con Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto e nell’anno successivo con Il giardino dei Finzi-Contini.

[10] Federico De Roberto e la modernità letteraria di Margherita Ganeri  nella NOTA n°4

[11]  DON FABBRIZIO E LA VERITA’ di Alphonse Doria – pubblicato sul-L’ISOLA Editore Francesco Paolo Catania Bruxelles (Belgique) – Bimestrale anno VII- 2005: n°1 Gennaio/Febbraio/Marzo Prima Parte pagine 4;   5- n°2 Marzo/Aprile Seconda Parte pagine 6;7 – n°3 Maggio/Giugno Terza Parte pagine 10; 11 -  n°4 SettembreOttobre – Quarta parte pagine 8; 9

[12] Lettere di commiato, in Gli amori, di Federico De Roberto – Milano Edizione Galli, 1898, pagina  255.

[13] 337

[14] Il film si chiude con Consalvo al Parlamento per la seduta del 20 novembre del 1918 e la voce narrante di Consalvo afferma che è la data del suo 77° compleanno. Quindi conti alla mano 1855 (non 1853) meno 14 otteniamo l’anno di nascita del Consalvo (film) 1841. Questa è sicuramente una svariata di testa degli autori della scenografia.

[15] Pagina 339

[16] Pagina 434

[17] Pagina 357

[18] Faenza è anche sceneggiatore insieme a Sandro Petraglia – Cecchi Gori Distribuzione Anno 1997 PREMIO DAVID DI DONATELLO 1997 PER MIGLIORE FOTOGRAFIA (TONINO DELLI COLLI), MIGLIORE SCENOGRAFIA (DANILO DONATI), MIGLIORE COSTUMISTA (DANILO DONATI).

[19] Rizzoli Libri, Superpocket, anno 1990, ha ottenuto i seguenti premi: Campiello 1990; Libro dell’anno 1990; ed è stato tradotto in diciotto paesi. E’ la storia di una donna sordomoua dall’età di cinque anni, causa di uno stupro data in sposa ad uno vecchio zio in giovanissima età, lotterà il suo andicap e la sua condizione di donna.

[20] E’ nata a Fiesole il 13 novembre del 1936. La madre, Topazia, è pittrice e appartiene a un’antica famiglia siciliana, gli Alliata di Salaparuta. Il padre, Fosco Maraini, per metà inglese e per metà fiorentino, è un etnologo conosciuto che ha scritto diversi libri sul Tibet e sul Giappone. È stata a lungo compagna di Alberto Moravia con cui visse dal 1962 al 1983, accompagnandolo nei suoi viaggi intorno al mondo. Scrittrice di successo il suo esordio è  nel 1962 con il romanzo La vacanza.

[21] Anno 2000

[22] Franco Zeffirelli, all’anagrafe Gianfranco Corsi Zeffirelli è nato a Firenze il 12 febbraio 1923. Ha avuto un infanzia poco felice, rimasto in giovane età orfano della madre e con un padre che lo riconobbe come figlio tardamente. Molti sono i successi cinematografici, teatrali e nell’opera lirica. Zeffirelli ha avuto un rapporto artistico e culturale molto particolare con la Sicilia. La sua prima esperienza nel mondo del cinema è stata con Luchino Visconti nel film La terra trema, ispirato, come sappiamo,  a I Malavoglia del Verga. Nel 1982 il suo amore per Verga continua realizzando Cavalleria rusticana,  basato sulla novella omonima e sull’opera omonima di Pietro Mascagni. Nel 1984 mise in scena a teatro Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello. Il suo ritorno al cinema fu nel 1993 di nuovo con Verga, appunto con Storia di una capinera. Nel 1994 viene eletto senatore della repubblica nelle Liste di Forza Italia della circoscrizione Catania ottenendo un numero record di voti che riconferma con la sua rielezione a senatore del 1996.

circoscrizione Catania ottenendo un numero record di voti che riconferma con la sua rielezione a senatore del 1996.

[23]Film con Valentina Cortese, John Castle, Vanessa Redgrave, Frank Finlay, Sinéad Cusack. «continuaJonathon Schaech, Camillo Pilotto, Mario Ferrari, Claudio Gora, Amalia Pellegrini, Maria Jacobini, Marina Berti, Teresa Mariani, Barbara Livi, Pat Heywood, Angela Bettis, Oreste FaresDurata 99 minuti – anno 1993. Ha vinto il Nastro d’argento e il David di Donatello per i costumi a Piero Tosi.Ha ottenuto un grande e caldo successo di pubblico e di critica all’anteprima mondiale e al galà conclusivo del Festival di Tokio. Produzione:C.G.G. TIGER OFFICINA CINEMATOGRAFICA Distribuzione:PENTA (1994) – CECCHI GORI HOME VIDEO.

[24] Il Monastero della Santissima Trinità è un edificio settecentesco. Originariamente sede di un convento di clausura femminile, oggi è suddiviso in due aree principali di cui una ospita la caserma dei Carabinieri del distretto di Piazza Dante, mentre l’altra un liceo scientifico intitolato a Enrico Boggio Lera.

[25] Vive a Los Angeles, si occupa di cinema da molti anni e con lei le star di Hollywood si confidano.

[26] Pagina 380

[27] Pagina 464

[28] Vedi sottolineatura (PARTE PRIMA CAPITOLO SESTO PAGINA 384)

[29] Scienza e arti all’ombra del vulcano di Enrico Iachello – Fonte: http://www.flett.unict.it/internals/forum il 16 aprile 2010 ore 19,59

[30] Pagina 469

[31] Pagina 529

[32] Pagina 465

[33] La balia Un film di Marco Bellocchio. Con Michele Placido, Fabrizio Bentivoglio, Valeria Bruni Tedeschi, Jacqueline Lustig. «continuaMaya Sansa, Pier Giorgio Bellocchio, Gisella Burinato, Fabio Camilli, Eleonora Danco, Elda Alvigini, Ginevra ColonnaDrammatico, durata 106 min. – Italia 1999

[34] Marco Bellocchio nato a Bobbio il 9 novembre 1939 è un regista italiano. Di fede sempre comunista,  nel 2006 si candida alle elezioni politiche per la Camera dei deputati, nella lista della Rosa nel Pugno costituita da radicali e socialisti. Il 7 maggio 2010 vince il David di Donatello come miglior regista per il film Vincere.

[35]Recensione di Giancarlo Zappoli    

[36] La balia tratta dalla raccolta In silenzio di Luigi Pirandello tratto da NOVELLE PER UN ANNO – Fratelli Melita Editori – La Spezia  – 1993 Pagina 238

[37] Pagina 386

[38] Pagina 387

[39] L’ULTIMO DEGLI UZEDA

 

[40] I Vicerè PARTE TERZA CAPITOLO TERZO Pagina 574

[41] Pagina 662

[42] Pagina 658



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