L’IMPERIO CAPITOLO SESTO Pagina 769

(CAPITOLO SESTO Pagina 769)

“«Il Paese? Con la P grande? Voi ci credete ancora? Caro mio, se voi dite, chi è, dov’è, che cosa fa, dove si può trovare questo signor Paese ve ne sarò grato. Il Paese siamo io e voi, e l’usciere che sta in anticamera, e la signorina che ricopia lettere di là. Il Paese è tutti, il che vuol dire nessuno. E tanto valgono le nostre idee quanto quelle dei nostri avversarii.»

«Come? Ella crede che siano tutt’uno?»

«Ma sì! Io credo che tutti siamo d’accordo. Noi vogliamo conservare progredendo, gli altri vogliono progredire conservando: la differenza non mi pare un abisso. È quistione d’intendersi…»”

 

Dal confronto tra Consalvo e Federico Ranaldi avviene lo svelamento del primo. Il Francalanza nella sua impazienza ad emergere si toglie la maschera davanti al giovane giornalista. Le convinzioni ideologiche di conservatore del deputato si scontrano con la sua vera natura di opportunista. Quindi cosa è più opportuno alla sua scalata al potere? Rimanere dietro le file aspettando che qualcuno si accorge di lui, lasciando spazio, oppure ciò che era risultato vincente in Sicilia: “laggiù egli aveva dovuto fare il democratico, stringere mani callose vincendo un senso di fisico ribrezzo, protestare contro le distinzioni di casta mentre s’era sempre creduto e sentito d’una pasta diversa dalla comune. Appena eletto, aveva preso posto a destra, tra i più rigidi conservatori; e ora cominciava a pensare se questo non era stato un errore”[1].  La sua natura vera, la sua appartenenza in armonia ai suoi interessi era del conservatore, monarca ad oltranza. Ma ora che si era ancor più arricchito con l’eredità  della sua vecchia zia donna Ferdinanda Uzeda, la quale lasciò quasi tutto a lui e l’altro lascito dell’altro suo zio, il senatore d’Oragua, tutta questa ricchezza, la sua nobiltà era un freno, un “impedimento” alla carriera. Persino la sua giovinezza senza un incarico, magari come l’essere scritto in qualche commissione, come “la Mercantile”, può risultare un vantaggio, in caso contrario a nulla gli serviva.

In queste pagine vi è il grande assioma di Andreotti, quando disse:  “Un mio amico siciliano mi diceva che il potere logora chi non ce l’ha”[2]. Chissà chi sarà mai stato questo suo amico siciliano? Ma forse è un’altra storia. Consalvo medita su quei “grandi uomini” invidiandoli perché erano contraddetti, accusati, insultati, derisi anche e maledetti, come nemici del bene pubblico, e venduti e traditori; ma che importava? Scotto inevitabile, tributo da pagare alla malevolenza, all’ignoranza, alla sciocchezza; chi saliva più alto, più si faceva nemici, e Consalvo voleva averne infiniti, pur di arrivare al primo posto. Nella avversione vedeva il segno della grandezza; e di questo appunto si doleva; d’essere rimasto, di dover rimanere chi sa per quanto tempo ancora un mediocre, uno dei tantissimi che passano senza infamia e senza lode. Ogni volta che apriva un giornale umoristico, quando vedeva le innumerevoli caricature di Depretis, di Giolitti, di Zanardelli, si struggeva d’esser ritratto su quei fogli, anche orridamente, anche sconciamente. Ma essere tosto riconosciuto da tutti, esser segnato a dito, imporsi all’attenzione universale!”[3]. Così si logora il deputato Uzeda senza potere, senza considerazione della stampa. E qualsiasi mezzo era opportuno per l’Uzeda, anche quello di passare nelle file dei democratici. Come ha fatto Paolo Arconti, ricco e nobile che se ne sta all’Estrema Sinistra. Molti non lo credevano sincero, pur se andava nelle osterie a bere ed a stringere le mani a gli operai, faceva i suoi accesi comizi in maniera radicale e i suoi articoli gettavano fiamme. Eppure viveva la sua vita agiata, vestiva in maniera “raffinata” ed era l’amante “di sua cugina donna Teresa Duffredi Uzeda dei prìncipi di Casaura”[4]. Ma chi era sincero per l’Uzeda? Nemmeno quelli che “predicavano con il fervore degli apostoli perché il bisogno di emergere, di eccellere, di predominare gli pareva essenziale ad ogni uomo”[5].

Il deputato Arconti è il punto di contatto diretto tra L’Illusione e L’Imperio, perché amante della protagonista della prima parte de Il Ciclo degli Uzeda. E’ il punto di contatto, di riferimento del cerchio narrativo, come l’aggiunta nelle edizioni postume de L’Illusione[6] specificano: “Il principe Consalvo Uzeda di Francalanza, nipote del babbo, e perciò cugino di lei, era venuto alla capitale, in qualità di deputato: non cercò di vederla”[7]. Teresa e Consalvo non si incontrano, non si vogliono incontrare, né Consalvo la cercò e neanche Teresa si è prodigata da parte sua. Quindi l’Arconti è il completamento narrativo di questi uomini protagonisti dell’inganno della propria esistenza, una pura illusione in cerca di quel qualcosa che li realizzi, Teresa cerca il vero “amore”, quello dei romanzi, quindi la passione; Consalvo il “potere” quello de I Viceré, quindi la razzio. L’Illusione e L’Imperio sono le parti rappresentative di una tragedia greca dove lo scenario è la storia e sussistono in pieno contrasto Dionisio (la passione) e Apollo (il razionale). Molto spiega a riguardo la considerazione di Nietzsche su la nascita della tragedia greca: Questi due istinti così diversi camminano uno accanto all’altro, per lo più in aperto dissidio, stimolandosi reciprocamente a sempre nuove e più gagliarde reazioni per perpetuare in sé incessantemente la lotta di quel contrasto, su cui la comune parola di “arte” getta un ponte che è solo apparente: finché in ultimo, riuniti insieme da un miracolo metafisico prodotto dalla “volontà” ellenica, essi appaiono finalmente in coppia e generano in quest’accoppiamento l’opera d’arte della tragedia attica, che è tanto dionisiaca quanto apollinea”[8].

      L’Imperio è molto innovativo, per non dire sperimentale per la letteratura italiana, sia come lingua[9] sia come struttura narrativa, oltre a raccontare il potere di un giovane stato che non appena nato è decrepito, stantio in quanto la sua sostanza non è l’istanza politica e di felicità dei suoi componenti ma solo ”imperio”, potere.

Nel dialogo tra lì opportunista Consalvo e il purista Federico si inscena l’oggetto narrativo.

Consalvo, come nella scommessa di Pascal, dice a Federico che conviene fare il rivoluzionario, il “repubblicano” scommettiamo che avvenga la rivoluzione si è già al potere, mentre se non accade gli altri rispettano perché hanno paura che possa accadere. Chiarendo così che lui ha sbagliato con chi stare. La risposta del giovane Ranaldi spiega le sue ragioni ben lontani dall’opportunismo e rivolte al bene comune, dal suo punto di vista. Lui crede che i conservatori sono per il bene del “Paese” e che quella “Monarchia ha fatto l’Italia”. Consalvo risponde ridendo. Basta solo questa risata per chiudere la conversazione, ma non è sufficiente perché il suo interlocutore è chi corregge i suoi scritti, è chi gli sta insegnando a scrivere, calpestando la sua fierezza nobiliare. Allora ecco l’esigenza di concettualizzare il suo opportunismo sperando di seminare il suo male nell’altro. Ecco allora dimostrare che quel Paese/Nazione, non esiste: “Il Paese è tutti, il che vuol dire nessuno. E tanto valgono le nostre idee quanto quelle dei nostri avversarii”[10]!  E’ un rimarcare la congettura di Sterner già illustrata precedentemente[11]. Consalvo rimarca la sua concezione di appiattire le posizioni ideologiche anche opposte e congiungerle tra loro.

“ -Come? Ella crede che siano tutt’uno?

-Ma sì! Io credo che tutti siamo d’accordo. Noi vogliamo conservare progredendo, gli altri vogliono progredire conservando: la differenza non mi pare un abisso. È quistione d’intendersi…

-È quistione di metodo…

-I metodi buoni sono quelli di chi riesce”[12].

E’ questione d’intendersi … E’ questione di mettersi d’accordo e un accordo in un tavolo comune si trova. I repubblicani sono pronti a sedersi sul tavolo amministrativo e i monarchici sono pronti a farli sedere. Consalvo demolisce l’onore della Monarchia che ha fatto l’Italia, lo fa con la storia, quella stessa storia che diventa retorica in realtà ecco che per bocca di Consalvo arriva la denunzia di De Roberto al risorgimento che la Monarchia non è stata sola a fare l’Italia: “Proprio lei, sola sola? E come l’ha fatta? Sponte o spinte? Con le vittorie, o a furia di disfatte?”[13]. Proprio lei da sola? Viene da rimarcare, non vi è stata qualche organizzazione, un volere internazionale che ha agito beffandosi del destino dei Popoli Italici a via di spinte, a via di disfatte che divenivano vittorie, come le imprese garibaldine e i tradimenti dei generali borbonici e le fantastiche narrazioni di Dumas e della stampa per creare il mito fondante della fantomatica nazione “Italia”. Ecco allora che il duca D’Oragua diventa un padre della Patria perché la sua vita trascorsa tra inganni e tradimenti è in piena etica dell’Italia. Consalvo ha così utilizzato anche il funerale di famiglia per i suoi scopi propagandistici. Una Italia messa insieme alla meno peggio, non può dare altri risultati che mediocri. Quindi Consalvo continua a rimbeccare quel giovane Ranaldi: “E che cosa è questa sua Italia? Dov’è la gloria, il lauro e il ferro che il vostro Leopardi andava cercando sessant’anni addietro? Ne avete notizia voi? Siamo l’ultima delle grandi nazioni, una ranocchia gonfiata sul punto di crepare, come quella della favola”[14]. La retorica rimane retorica e cade, si sgretola al confronto degli eventi e dell’evidenza dei fatti. Federico costata solo l’arrivismo del suo interlocutore, il quale ha il solo fine di salire sopra uno scrigno, magari di ministro. Quindi gli alibi ideologici trovano il tempo che vogliono. Per questo motivo l’opportunista che condisce sempre le sue parole anche con delle verità quando viene scoperto ha perso qualsiasi credibilità. In Ranaldi che in quanto idealista già razionalizza tutto ciò che percepisce ancor di più non suscitano alcun senso critico le “verità” di Consalvo. Ormai ha compreso che quelle conversazioni erano diventate inutili e noiose: “che non la forza delle idee, ma quella degli interessi le produceva”[15]

Ben conscio che gli incarichi ministeriali non erano più influenzati dai salotti aristocratici, ormai sa il deputato Consalvo che deve farsi strada tra la gente, sono “tempi democratici”: “Erano valse laggiù, in Sicilia, in mezzo ad un popolo ancora imbevuto delle tradizioni spagnolesche;”[16], subito dopo ricorda che ha dovuto fare il democratico anche “laggiù”. De Roberto in questo modo afferma un concetto negativo sull’influenza del dominio spagnolo in Sicilia. Concetti che sono stati condivisi da Alessandro Manzoni e  Francesco De Sactis. In questo caso De Roberto fa riferimento alla società siciliana imbevuta di formalismo esteriore, di dominio da quella classe di potere sotto l’egemonia della Spagna. La decadenza progressiva dell’egemonia spagnola  trascinò con se anche i possedimenti appartenuti. Il Regno delle due Sicilie era imbevuto caratterialmente dallo spagnolismo sia in maniera burocratica che come  amministrazione, danni che ancora oggi persistono e sono duri da estirpare, anche come costumi, atteggiamenti e modi di comportamentali. Ancora oggi ascolti qualcuno che vociando enumera le proprie virtù, ripete “io” mille volte e tutto ciò che vi è stato di positivo è stato per merito proprio. Ancora oggi qualcuno per farsi una passeggiata si veste come se dovessi andare ad una serata di gala, che si preoccupa a mostrare una fede magari per niente rispettata nei suoi autentici valori, solo per il bisogno di apparire. Ancora oggi troviamo due colleghi che si danno la precedenza per entrare al bar, che si scappellano inchinandosi al capo ufficio e a qualsiasi personalità autorevole persino religiosa. Tutto ciò fa parte di quello spagnolismo ancora che persiste. Comunque l’antispagnolismo risorgimentale fu ben altro argomento. Era basato sulla retorica nata nel XVIII secolo e quindi impregnata della lotta allo straniero per lo più retorica tanto che prendo le parole dello storico Galasso: “l’Italia dei secoli XVI e XVII fu lontana, in particolare, dal vivere il rapporto con la Spagna nell’ottica di un’oppressione straniera. (…) Nell’etica civile di quel tempo l’appartenenza di più paesi alla medesima corona e dinastia non configurava alcun problema di nazionalità oppressa. Se la sovranità regia era legittima, la coscienza pubblica e il sentimento politico non potevano trovarvi alcunché di incongruo col proprio orizzonte psicologico e culturale”[17] Ma ciò che ha accresciuto la “leggenda nera della Spagna Cattolica” secondo Galasso è stato perché “(…) permeata di elementi ideologici che hanno fatto fortemente premio non solo sulla ragione storica, ma pressoché su ogni altra ragione (…) costruita sulla scorta di due secoli di po­lemiche protestanti e illuministiche, liberali e nazionali, sociali e democratiche, massoniche e umanitarie”[18].

I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni sono una invenzione letteraria su una base storica che contribuisce molto a rinforzare l’antispagnolismo, anacronistico ma sempre un “mito negativo dello straniero” che appoggia totalmente alla retorica del binomio “Patria/Libertà”. Come scrisse Cesare Cantù in un commento storico del romanzo: “Tuttavia la ricerca erudita che si appassiona per tante vicende provinciali e cittadine rimane volta innanzitutto a raccogliere episodi che illustrino i tempi infelici della dominazione straniera. I fatti sono presentati al lettore secondo una formula narrativa efficace: la retorica e l’aneddoto hanno sempre la meglio sull’approfondimento e ne risulta una semplificazione oleografica del passato”[19]. Con De Roberto la figura spagnola del “viceré”, decontestualizzata dal punto di vista storico, diviene quella  dell’uomo politico che detiene il “potere” del suo territorio, in tal modo lo stesso termine si arricchisce di valore semantico assumendo il significato in aggiunta di altre qualificazioni, come opportunista, arrogante eccetera.

Intanto i conservatori si accorgono che il loro modo di fare politica diveniva desueto, mentre quello dei socialisti era vivo, e produceva consenso, voti, la formazione di tante leghe e fasci e federazioni di operai, la pubblicazione di fogli che profetavano l’avvento del quarto Stato (…) il mercato rovinato dalla rivoluzione sociale, i titoli di rendita e le azioni delle società industriali ridotti ad altrettanti pezzi di carta da salumaio, i biglietti di banca svalutati peggio degli assegnati della prima Repubblica francese”[20] . Insomma era nato un processo che andava fermato, combattuto, almeno imitandoli nella loro lotta che gli produceva tanto successo. Ci vogliono figure giovani “di fede e di fegato”. Ecco allora che la contessina Renata, innamorata dell’Uzeda, lo propone. Ecco sì! E’ l’uomo giusto. Ma non il momento, perché Consalvo tutto aveva in testa che mettersi contro ai rivoluzionari, anzi la sua volontà, ormai palese, era quella di passare nelle loro file. La sua risposta alla contessina è una autentica delusione: “Le idee si equivalgono”! Quindi perché rischiare? “per i begli occhi del Re … di Prussia”? E’ una delusione per chi aveva intravisto in lui l’“uomo di cuore”. Quando in fine si accorge che proprio il mettersi in mostra in quella maniera può attirare l’attenzione di chi conta come Boito, “farsi onore, farsi strada”! Allora accetta di conferire in un teatro chiuso su i mali del socialismo. Ecco che alla contessina Renata gli recita la parte che tanto lo fa somigliare a tutti quanti i mestieranti della politica di ieri e di oggi: Ho accettato il vostro consiglio, contessina, e ve ne sono grato. Il nostro dovere è di difendere con ogni forza la Società minacciata. Io sono l’ultimo del mio partito, ed ho provato molte delusioni, e disinganni; ma, nel momento del pericolo, non posso disertare il mio posto. E il momento è grave come non mai..”[21]

 



[1] Pagina 768

[2] Una “marcia” mancataConcretezza, n. 12, 16 giugno 1959, pagina 4

[3] Pagina 767; 768

[4] Pagina 769

[5] Pagina 768

[6] Vi è stata una seconda edizione dove De Roberto apporta una revisione stilistica e linguistica nel 1901, e una terza edizione nel 1922 questa volta riveduta, tutte e due edizioni Treves.

[7] Seconda Parte nel Capitolo Terzo a pagina 196

[8] Opere scelte di Friedrich Nietzsche tradotte in italiano da L. Scalero – Editore Longanesi –  Milano, 1962 – Pagina 85 e pagina 173

[9] Vedi LA  LINGUA.

 

[10] Pagina 769

[11] CAPITOLO TERZO Pagina 719

[12] Pagina 769

[13] Pagina 770

[14] Pagina 770

[15] Pagina 771

[16] Pagina 768

[17] Alla periferia dell’Impero. Il Regno di Napoli nel periodo spagnolo (secoli XVI-XVII) di Giuseppe Galasso – Einaudi – Torino, 1994 – pagina 480

[18] Ibidem Introduzione pagine X e XI

[19] Fonti documentarie e storiografia. La scoperta della complessità, in M.C. Giannini – G. Signorotto, Lo Stato di Milano nel XVII secolo. Memoriali e relazioni, Libreria dello Stato, Roma 2006, pagina XIII

[20] Pagina 771

[21] Pagina 774



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