L’IMPERIO CAPITOLO NONO Pagina 834

(CAPITOLO NONO Pagina 834)

“Che bellezza!… Che incanto!…» esclamava, dinanzi al paesaggio grandioso. «Guardate Capri!… Guardate il Capo!… E quel piroscafo che se ne va in Sicilia!… È la strada della Sicilia, è vero?»

«Sì…»

«E questa scoscesa!… E questa spiaggia!… Si contano le casupole, i sassi, le rughe del mare!… Direte ancora che è di cartone?”.

 

            Federico Ranaldi in tutta l’ascesa di Consalvo (Ottavo Capitolo) si è intravisto come un’ombra di se stesso segnato dalla sconfitta del suo ruolo di “apostolo” di una verità rivelatesi il male inutile e stesso della politica, della coscienza dell’ “italiano”. Rispunta in questo Capitolo con quaranta anni addosso nella sua terra di origine, a Salerno, come se i suoi venti anni a Roma fossero stati un lungo sogno e si sarebbe svegliato nella casa paterna. Come in moltissimi romanzi del novecento il protagonista sembra un Odisseo in cerca di se stesso, il quale dopo non essersi trovato, viene spinto dalle correnti delle sue convinzioni costrutte e sballottato a destra e a sinistra, sconfitto da Circe, da Polifemo, dalle sirene e quant’altre hanno simboleggiato le sue chimere, torna nella sua Itica colpito duramente dal male di vivere. Federico ritornato carico della sua disillusione, come il Candido di Voltaire è tornato con la sua brutta Cunegonda, il quale riesce a trovare la soluzione come rendere sopportabile la vita: coltivando il proprio giardino. Io non condivido quello che risponde Panglos[1]: “quando l’uomo fu posto nel giardino dell’Eden ci fu posto ut operaretur eum, a lavorare. E questo prova che l’uomo non è nato per posare[2], perché vi sono due versioni bibliche della Genesi: la Javista e quella Sacerdotale. Mentre nella Sacerdotale l’uomo è posto come custode e giardiniere, nella Javista è invece posto come signore. Solo dopo la sua arroganza e la sua disobbedienza l’uomo viene cacciato fuori dal Giardino e costretto a guadagnarsi da vivere con la fatica del suo lavoro. Tanto per essere polemico, la Sacerdotale ha un certo interesse a rendere ubbidiente l’uomo al lavoro e quindi a considerarlo un comandamento del Signore e così piegabile alla classe dirigente. Mentre la Javista è una tradizione popolare e quindi molto più schietta e disinibita dal potere. Altri affermano che la Sacerdotale e consequenziale alla Javista. Parlandone con mio figlio Federico sul “giardino” di Candido mi rispose ricordandomi una sua canzone dove vi specifica che quel “giardino” da coltivare si trova nella mente, nel cuore, nell’anima: “Ho un Amico che legge nei miei pensieri, per fortuna non sono mai sinceri, con la gioia dei giorni di festa, cura il giardino che ha nella testa”[3]. Il proprio possedimento terriero, la cosiddetta “roba”, quel giardino di interessi strettamente individuali, di sicuro è un orizzonte molto miserabile per qualsiasi uomo intellettuale. Il concetto è intrinseco nella parola stessa “cultura”, viene appunto da coltivare.

De Roberto, pur avendo avuto le sue appartenenze politiche, posizioni e convinzioni, qualsiasi etichetta non gli si addice, in quanto non è un politico nel vero senso della parola, ma un intellettuale e la sua funzione è anticipatrice e provocatoria.

L’Autore in questo Capitolo, secondo la mia lettura, ha dato degli indizi simbolici molto interessanti come il luogo dove il personaggio vive, il Sacro Monte[4]. Ranaldi in questo posto, in questo meraviglioso giardino si trova al terrificante bivio: vita o morte? E’ doveroso ricercare le ragioni che lo hanno portato in questa realtà, in questo stato filosofico e di spirito. Per farlo allora bisogna riflettere su ciò che è stato Il Ciclo degli Uzeda. La stessa struttura creativa ci fa comprendere che è la continuazione de Il Ciclo dei Vinti di Giovanni Verga, fermatosi al borghese Mastro don Gesualdo nel suo tentativo di divenire aristocratico. De Roberto parte dalla narrazione che l’aristocratico locale (il Viceré di Sicilia) tenta a divenire uomo politico per conservare il potere ormai minacciato dalla storia. E cosa è stata la storia? Una continua trasformazione politica, una nuova realtà di “nazione”, fondata con mistificazione e inganno travestita da eroicità retorica, creando miti fondanti. Indubbiamente molti sono morti credendo ad un ideale di libertà e di fratellanza italica e di sicuro non credo di sudditanza. Il risorgimento così come è stato viene narrato da Federico De Roberto da letterato verista, e da intellettuale, non curandosi di contraddirsi e di smentirsi nei suoi principi di moderato conservatore, come ha fatto lo stesso Verga. E’ questo il mestiere del verista! Cosa è stata la storia? Il diffondersi del positivismo come pensiero. La certezza che nella scienza vi è la strada per il bene dell’uomo. Ma qualcosa è andato storto, nella storia, mentre tutti gli Uzeda e affiliati alla fine sono dei vinti, tutti quanti escluso uno: Consalvo. Questo nella cronaca reale (il marchese di San Giuliano) diventa sindaco di Catania, deputato, ministro. Una ascesa irrefrenabile, tra inganni che lo stesso De Roberto nella realtà denunzia come giornalista tante volte e più volte ancora. E allora? I fatti hanno tradito l’impianto letterario dell’Autore. Mentre il positivismo, la scienza, il progresso ha peggiorato la vita dell’uomo, ora industrializzata in una alienazione completa del lavoratore, ha creato armi ancor più micidiali, e la peggiore di tutte le armi è stata il razzismo! “Il progresso era tutto apparenza, illusione e presunzione. Tolta agli uomini la presunzione, che cosa restava loro? Che sapevano essi del loro destino, del mondo, della prima origine delle cause, dell’ultima fine di tutti gli effetti? Nulla, nulla, nulla. E invece di essere modesti, umili e rassegnati, essi erano arroganti, boriosi, inframettenti: gridavano, urlavano, battagliavano, pretendevano la signoria dell’universo, e si piegavano soltanto dinanzi a un Dio fatto a loro immagine e somiglianza”[5].

I Viceré si è concluso con il trionfo di Consalvo deputato, con la sconfitta di quel popolo elettore. Il vero “vinto” perché convinto di avere eletto un progressista, uno che doveva perorare la causa sociale e invece hanno eletto un conservatore radicale. De Roberto a questo punto ha creato un anti-Consalvo, pienamente italiano, nato il giorno dell’ingresso del re Vittorio Emanuele a Napoli, convinto di avere raggiunto il suo stato etico nel concetto di nazione “Italia”, è un idealista conservatore. Presto si accorge il male che vi è in quella storia “nazionale”, così tanto amata da lui. Si accorge della sofferenza che vi è negli uomini e della insensibilità di chi sta al potere. Si accorge della piena sconfitta, si accorge di essere lui il “vinto”, di avere fallito la missione affidata dal suo “Autore”, la voce narrante impersonale. Quella stessa terza persona narrante che si è tenuto a giusta distanza dall’intervenire così non condizionando il libero arbitrio dei personaggi nei fatti. Appunto per questo motivo De Roberto si è approfonditamente documentato di tali fatti. Quindi è una terza persona conoscitore di ogni segreto pensiero dei suoi personaggi questo è uno dei mortivi perché nella narrazione esce un romanzo altamente moderno tra pensieri espressi e tenuti in riserbo nella mente dei vari personaggi. Il viaggio di Teresa nel – L’Illusione rispecchia questo metodo, ma è un percorso interamente visto con gli occhi della protagonista, dando così la possibilità al lettore di percorrere quella storia dall’interno del personaggio. Nel – L’Imperio, pur rispettando il libero arbitrio e la natura del personaggio ubbidiente alle regole del cosmo letterario del romanzo, De Roberto si incarna in Federico Ranaldi (come già trattato in precedenza).

           L’Imperio era nato per la condanna dei traditori della storia, per una denunzia del personaggio, senza condizioni e limiti, mantenendo De Roberto così la sua imparzialità di voce narrante in terza persona.

Ora quel personaggio è andato sul Sacro Monte in attesa che il suo “Creatore” si riveli, gli dia una strada da seguire, dei comandamenti per la “Pasqua” del riscatto, oppure visto il fallimento del ruolo, della missione, deve finire qui, terminare la sua esistenza. De Roberto avrà pietà di lui lo farà continuare a vivere in un mondo che muore. E’ questo l’autentico “male di vivere” che contagerà tutto il XX secolo e si chiamerà nichilismo, con le tragiche conseguenze che apporterà l’umanità in due conflitti internazionali e in un degrado morale sempre più crescente[6].

Federico Ranaldi, tornato a Salerno, trova i suo genitori ormai anziani, che provano soggezione per quel figlio che ha vissuto a Roma ed è tornato “celebre”. Quindi, nella sua esteriorità, non torna da fallito, è un famoso giornalista. I genitori avrebbero voluto per il figlio un altro destino: professionista locale affermato, con una famiglia e la cura per i propri possedimenti. Ma l’ “Autore” che lo ha creato aveva altri progetti per lui. Così ora si ritrovavano tutti “delusi”. Ognuno soffocava le parole nel proprio silenzio; “ (…) silenzii più eloquenti degli stessi discorsi”[7]. I genitori erano amareggiati dal male di vivere del figlio che intravedevano di tanto in tanto, e rimarcavano nei loro pensieri che se si fosse sposato avrebbe avuto una vita più concreta e non sciupata a “struggersi in vane tristezze”[8].

            Cosa lo tormentava dentro in un marasma di dolore? Aveva ritrovato i suoi vecchi libri e quaderni  di storia  dove si era esaltato: “ripensando ai fremiti d’entusiasmo che gli erano passati per tutte le fibre all’idea della patria grande e gloriosa, il fiele dello scherno gli saliva alle labbra”[9]. Il “fiele” per questo destino avverso dove i vili, i ciarloni, i nemici di se stessi, hanno vinto. Le vicissitudine politiche italiane lo rendono incapace di una reazione costruttiva. La pubblica sciagura è la sconfitta di Dogali[10]. Dopo la delusione dell’anticipo della colonizzazione francese in Tunisia, la politica italiana cercò un tentativo di espansione verso l’Abissinia. L’impresa è stata bloccata il 26 gennaio 1887 a Dogali, il tenente colonnello Tommaso De Cristoforis, che al comando di 548 uomini viene attaccato da una formazione militare di 7.000 Abissini. Gli Italiani resistono fin quando non finirono le munizioni, è così vengono sopraffatti e colpiti con lance e armi da taglio d’ogni genere massacrati quasi tutti. Mentre gli Abissini morti furono più di mille per la differenza delle armi in dotazione. Gli Italiani superstiti furono 86 soldati e un ufficiale. Il conte Salimbeni[11] testimoniò quanto segue: “Quando si diede il segnale d’attacco i tamburi e tamburelli del ras non cessavano di battere, ed all’improvviso, da ogni parte, come se sbucassero da terra, una tempesta di uomini si lanciò all’attacco, la cavalleria abissina caricò sul fianco dell’altura ed in pochi minuti, fu tutto finito”. I superstititi vengono prima orribilmente mutilati e poi uccisi. E’ stata sicuramente l’operazione di sprovveduti, di soldati Italiani mandati allo sbaraglio e alla morte. Per questo vi furono proteste nelle piazze d’Italia, fin quando non si dimise il ministro degli Esteri conte di Robilant[12]. Le dimissioni dell’Uzeda da Ministro degli Esteri fanno riferimento a questo evento. Quindi Federico riflette: “Di quale partito, di quali uomini fidarsi? Tutti gl’idoli che egli aveva venerati avevano rivelato le loro magagne, in tutti aveva trovato presunzione, ignoranza, vanità, intransigenza, difetti e vizii insanabili. Egli rideva della sua antica ricerca d’un uomo capace di salvare la nazione: nessuno poteva nulla salvare”[13].

                 E’ questa la parola che domina ogni suo pensiero “nulla”! “dentro di sé quella parola riecheggiava, sola, piena d’un altro senso. Nulla, non c’era da far nulla, non si poteva aspettare o sperar nulla, non si poteva credere in nulla”[14]! Un salvatore della nazione, un uomo, un “duce”, sarebbe risultato lo stesso inutile, una idea che aveva avuto e che ora ne ride con tutto l’amaro del nulla amaro che riempie la speranza. Si è in pieno nichilismo. Pure al progresso, alla scienza timbra con un “nulla” e così anche alla fede “nulla”! Federico guarda l’orizzonte osserva ogni cosa i piroscafi, le chiesuole, udiva le campane e pensa al nulla che incomincia a dominare a divorare ogni cosa: “Sì, gli uomini pregavano Dio; ma ad ogni preghiera rispondeva una bestemmia”[15]. Perché pregano il “Creatore” affinché “mutasse le leggi naturali, e sconvolgesse l’ordine degli avvenimenti”[16]. Tutti folli e bruti che hanno di bisogno dei vizii e delle virtù per distinguerli, ma: “Non c’erano dunque né virtù né vizii, né colpe né meriti: nulla, nulla, nulla”[17]. Ecco a questo punto la scoperta straordinaria di questo personaggio in cerca sul Sacro Monte del suo Creatore, scopre che il suo mondo tutto, ciò che vede, che respira, che sente nel cuore, che ha vissuto non è altro che nulla, oltre il senso intrinseco della parola, della letteratura. E’ una rivelazione unica e straordinaria: Dall’alto, nel silenzio profondo, il mondo gli pareva un semplice aspetto, una scena dietro alla quale non c’era nulla[18]. Scopre che quel cosmo era di “cartone”. Così Pirandello nel suo Il fu Mattia Pascal mette a disagio filosofico il lettore: “-Ora senta un po’ che bizzarria mi viene in mente! Se nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse un strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica Lei.”[19]. Come Truman Burbank il protagonista interpretato da  Jim Carrey nel fortunato film americano del 1998 The Truman Show, regia di Peter Weir. Il mondo dove è nato e vive Truman è un grande set televisivo, la sua vita un reality show fin quando il protagonista scopre che è tutto falso. L’isola dove lui vive Seahaven, ogni persona con chi si relaziona, persino il giorno e la notte e infine arriva fino ai confini del suo mondo e scopre che anche il cielo è di “cartone”, dove in alto dentro la Luna vi è il suo “creatore” Cristofer. Ecco il dialogo che avviene tra personaggio e autore:

“- Chi sei tu?
- Sono il creatore di uno show televisivo che dà speranza, gioia ed esalta milioni di persone.
- E io chi sono?
- Tu sei la star.
- Non c’era niente di vero.
- Tu eri vero: per questo era così bello guardarti”
.

                     Truman fugge lo stesso da quel falso “giardino” verso il mondo, quello vero, offerto da Sylvia (come Anna nel L’Imperio), fatto di fatica sofferenza, ma soprattutto reale e non finto. Truman segue l’amore che prova per questa donna che viene dal mondo reale. E’ il mondo che tutto il verismo siciliano ha cercato di creare, ma per quanto simile, mai lo stesso, rimane solo un riflesso filosofico della vita vissuta in ognuno di noi.

Ritornando alla letteratura c’è da precisare che il verismo siciliano che influenzò maggiormente Pirandello è quello di Federico De Roberto. Tanto è che I vecchi è i giovani, non è altro che la continua storica del Ciclo degli Uzeda di De Roberto, rimasto sospeso, inconcluso, nel Nono Capitolo de L’Imperio.  Ed è proprio De Roberto che inizia a dare un profilo psicologico ai suoi personaggi, dando vita, ma non autonoma del tutto, come se avessero coscienza del loro esistere. Mentre nel Verga sono vivi nella loro verità fotografata, nel De Roberto nel loro sentimento di vita, in Pirandello hanno coscienza esistenziale. Esistono, tanto che lo stesso Autore gli sottoscrive una dedica nel suo saggio. Tanto che sono loro stessi a cercarlo, a volere essere partoriti. E poi in teatro (ad esempio: Sei personaggi in cerca d’autore) escono pure dallo spazio mente dell’Autore e le parole (il verbo) diventano carne con gli attori. Gli attori non sono più tali ma i personaggi in carne e ossa, questa è la magnificenza di Pirandello.

Come Verga fotografava i suoi personaggi incontrandoli per le viuzze di Acitrezza, Acicastello, così Pirandello incontrava i suoi personaggi nella sua casa del Caos, tra le strade di Girgenti, o della Marina di Girgenti, nell’Hotel della Valle, in quale locanda o baglio di qualche amico. Lui ascoltava le loro storie, gli entravano nella mente, divenivano suo patrimonio culturale personale e dopo questa metamorfosi, volevano uscire per non rimanere sepolti nel dimenticatoio, per rivivere immortali nelle sue storie, nella sua arte. Possiamo dire a giusta ragione. Ecco che un misero contadino, un caruso delle miniere di zolfo, un fallito borghese, un cavallo, un filo d’erba, sono, come Ciaula, divenuti arte e conosciuti in tutto il mondo. Basta un particolare, un taglio d’occhi una caratteristica psicosomatica qualsiasi per interiorizzare il lettore nel profilo psicologico del personaggio.

Così Federico di fronte alle sue meditazioni filosofiche approda ad una visione carpocraziana, dove il mondo è il male creato dal demiurgo, ed è una semplice illusione riprodotta a copia del Regno dei Cieli: Allora, che cos’era tutto questo mondo, tutto questo tutto, che pareva un inganno, ma che stava e durava, e premeva ed opprimeva, inesorabilmente? Era il Male. Tutte le forme dell’esistenza, dalle più semplici alle più complicate, erano forme maligne”[20]. L’unica via di uscita da questa illusione, da questo morbo del male è l’amore che trova in Anna, ma il romanzo resta incompiuto, in questa eterna sospensione.

In realtà Federico essendo l’Autore incarnato fattosi personaggio ha coscienza che quel cosmo è una creazione di parole, di carta come le sue pagine. De Roberto cerca di trovare una via d’uscita dalla sua vita che sinceramente non trova né nel romanzo né nella vita reale. Anche Mattia Pascal sembra l’incarnazione dell’Autore Pirandello che cerca un volo pindarico alle sue continue sciagure familiari, una fuga non riuscita, ma solo un grande romanzo, invidiando così quel cielo ben proporzionato di cartone delle marionette di legno.

La filosofia del pupo in Pirandello la troviamo esplicita ne Il berretto a sonagli una commedia in lingua siciliana del 1916 tratta dalle due novelle La verità e Certi obblighi, preparata appositamente per il grande attore Angelo Musco.

Che cosa è il pupo? E’ l’esteriore del personaggio, quell’esteriore che viene mostrato a gli altri pupi e che esige il rispetto. Il contenitore del pupo può essere anche un miserabile ma la sua immagine esteriore non può transigere il rispetto. E come le marionette meccaniche, del teatrino annunziato dal signor Anselmo Paleari ne Il fu Mattia Pascal, il pupo ha delle corde che vanno caricate, una è quella civile, l’altra la corda pazza. Queste corde vengono caricate con attenzione e a secondo delle occasioni.

Nella commedia il personaggio principale è Ciampa, il quale dopo avere avuto dichiarato apertamente dalla sua padrona Beatrice che il marito gli metteva le corna, con la giovane e bella moglie e che lui amava così tanto da accontentarsi di ciò che gli rimaneva, non ha avuto via di scampo. Il Ciampa deve uccidere, per salvare il suo pupo dal disonore la propria moglie. A questo punto gli sorge una soluzione, quella che la Beatrice si deve fingere pazza, mettersi un berretto a sonagli e girare tutte le vie del paese. Solo così, la gente, gli altri pupi, possono dire: -poveretta non sapeva quello che diceva perché è pazza- ed evitare la tragedia. Questo è uno stravolgimento di ciò che succede nella novella La verità dove Ciampa uccide la moglie. Il sipario si chiude con tutti gli altri personaggi, fratello, madre, delegato Spanò, Fana, che fanno pera di convinzione mentre lei n’è terrificata.[21]

Questo è il decadentismo della persona in un epoca dove l’individuo incominciò a perdere sempre più il suo valore intrinseco di persona per un valore di immagine, sopperendo l’essere per l’apparire.

Federico Ranaldi continua la sua meditazione, il suo misticismo letterario: “Come tutte le cose tacevano, non sparivano anche al suo sguardo, non si dissolvevano nella chiarità del cielo? E contemplandolo con gli occhi intenti ed ardenti, tutto si cancellava infatti, tutto si disperdeva; ma quando egli credeva di vedere il vuoto ed il nulla restava la sua veggente coscienza. Non si poteva affermare veramente il nulla se non quando anche la coscienza spariva; ma, sparita la coscienza, chi o che cosa poteva pronunziare l’affermazione? La coscienza umana esisteva, era sempre presente ed attiva; e nella coscienza dell’uomo non si rispecchiava già il nulla, ma il tutto: le forme e le essenze, le cose e le idee, i sentimenti ed i fatti, l’universo materiale e morale, il mondo fisico e il metafisico!”[22]. Lui faceva parte del creato lui era il creato perché aveva la coscienza del “Creatore”. E allora pensava Federico se quella verità spaventevole non fosse la sua missione di rivelarla? Ancor di più spaventevole vi era: “che un cervello umano l’avesse potuto elaborare? Nel cervello, nell’anima umana si assommava tutto il male dell’universo, e diveniva cosciente. Altri accoglievano una concezione che pareva contraria a quella del Bene: ma essa non era né contraria alla prima, né fondata come la prima. Il bene è un intervallo del male, come il piacere è una tregua del dolore”[23]. Non vi è salvezza per l’uomo, tutto è male ogni atomo di materia è male, quindi: “ La rivelazione di questo male nella coscienza implica un solo vero bene, nel quale è il solo vero rimedio offerto agli uomini: la possibilità di abolire la coscienza, di distruggere la massima forma dell’attività morbosa universale, di ridurre l’essere vivente a materia insensibile”[24]. Federico da qui approda allo stoicismo e alla filosofia del suicidio, considerato dagli antichi Romani degno d’onore. Per Seneca era una espressione di estrema libertà, l’ultima possibilità di fuga all’irrazionale.  Il pensiero derobertiano viene influenzato maggiore dalla filosofia di Hartmann[25]. Il pensiero del filosofo tedesco è diviso soprattutto in tre parti: Prima – le cause psichiche (spirituali) spiegano i fenomeni naturali degli esseri viventi, non sono dovuti a cause meccaniche ma finalistiche; seconda – vi è una attività spirituale sotto la coscienza, definita “inconscia”, dove il mondo psichico si può semplificare in volontà e rappresentazione (Schopenhauer); terza – dove l’inconscio è il principio unico di tutta la realtà. Da questa considerazione il pessimismo, perché l’essere ricercando la propria soddisfazione di vita (eudemonologia) procura la concezione del non essere del mondo, come dimostra l’evoluzione storica dell’umanità verso il proprio annichilamento. Mentre Mainlander[26], pur se meno conosciuto di Hartmann, sembra essere ancor più attinente alla filosofia di De Roberto, in quanto concepisce il suicido come la negazione della volontà per la “redenzione dell’esistenza”, per potere guardare finalmente il “Nulla Assoluto”, ne fu tanto convinto che alla fine dopo tante sventure personali e familiari si suicidò. Quindi le congetture che troviamo nel romanzo sono abbastanza impregnate dal pensiero filosofico dell’epoca.

Federico vuole essere l’apostolo di tutto ciò perché la morte di se stesso gli faceva fisicamente ribrezzo. E allora guardava le armi che si trovavano nel Sacro Monte: “In quella casa di campagna, appese al muro d’un corridoio, erano le armi che gli erano venute dallo zio colonnello; una pistola corta e un revolver primitivo, con tutte le sei canne che giravano intorno al tamburo e si caricavano dalla bocca, con polvere e palle, erano cariche da tempo immemorabile, forse da Calatafimi, e certo non avrebbero preso fuoco; pure, accostando per prova la bocca alla tempia, l’impressione di quei gelidi anelli gli metteva un brivido di ribrezzo per tutti i nervi”[27].

Non accaso quelle armi erano rimaste cariche da Calatafimi, dove vi fu la cosiddetta “battaglia” dei garibaldini il 15 maggio 1860, dove le armi borboniche sono rimaste cariche perché il generale Landi fece ritirare le truppe senza sparare ad Alcamo[28] in maniera deplorevole lasciando, i feriti sul campo e l’accesso libero verso Palermo di Garibaldi. Una autentica vergogna dell’epopea garibaldina basata sul tradimento degli avversari. E’ questa la storia che si è rivelata un inganno dove fu costruita una falsa nazione che non può significare più nulla nella congettura ideologica del personaggio. Dove solo ingannatori vili possono avere la meglio perché conformi nell’etica.

Quindi il Federico inorridito dal suo suicidio l’unico atto che gli era possibile verso quel Nulla Assoluto era di schiacciare qualche povero insetto che gli capitava sotto i piedi.

In questo senso “mistico” in piena meditazione Federico protagonista di questa “meta[29] letteratura” affronta i percorsi del sentimento religioso per riconoscere il “Male”:  I saggi indiani hanno predicato l’astinenza e decantato il Nirvana: a che pro? Il più coraggioso rivelatore del dolore e del male ha concepito il suicidio della Terra; con quale effetto? Dove sono le opere, le azioni, i tentativi, un principio di esecuzione? Una setta di fanatici Sciti si mutilano per sottrarsi all’istinto della procreazione, ma costoro non sono già mossi dalla verità filosofica, bensì da un pregiudizio religioso. E quanti sono? E gli Sciti e tutti i popoli del vecchio e del nuovo mondo non crescono prodigiosamente, urtandosi, combattendosi, come colonie di microbi e di bacilli antagonisti dentro una piaga?”[30]  La vita vista come una infezione una spregevole malattia, da alito ad un collegamento letterario impiantistico, al richiamo di Federico in città perché il padre sta male. E da questa malattia cosmica si passa a quella personale del padre per concepire che da questo “male” può sorgere un fiore, una speranza, è l’incontro con Anna Ursino, diciottenne fresca, giuliva, assennata, figlia di un grande amico del padre. Come Mary Poppins “praticamente perfetta”, i Ranaldi la chiamano la Perfezione! Come dire, per Federico è davanti a se un ricominciare da capo, da dove si era lasciato il discorso quando era partito per Roma, cioè prendere una moglie benestante e rimanere nella sua terra e fare tanti figli. Il destino che gli avevano assegnato i suoi genitori. Però prima deve liberarsi di tutto il male concepito che porta nella sua testa, lo deve spurgare da dentro se, per potere guardare un futuro possibile, guardare dentro gli occhi di Anna.

L’apostolo così svela la sua “atroce profezia”, terrificando tutti i familiari presenti e il nonno di Anna cavaliere Ursini. Mentre lei, dopo avere sviscerato quel male, gli dice soltanto, con le lacrime a gli occhi: “Che ti hanno fatto?”.

Il fatto storico che ha scaturito il vomito parolaio di Federico è l’attentato di un anarchico (“un italiano di Trieste”) contro la Camera austriaca, all’uscita dei deputati riportato da un giornale di Napoli. L’anarchico per fare saltare la bomba schiacciava il detonatore in ginocchio con un sasso, vi furono solo dei feriti, mentre lui è saltato in aria. I motivi dell’attentato vengono riportati da De Roberto: contro la società borghese ed i suoi rappresentanti occupati a combattersi in nome di quelle idee di patria e di nazione (…)l’efficacia dell’esempio cruento e del martirio serenamente affrontato, la necessità di sopprimere, quindi, non più gli individui particolari, ma l’autorità che avevano arbitrariamente esercitato; affinchè (…) il consorzio civile, affrancato da ogni tirannia piccola o grande, materiale o morale, e sotto le uniche leggi della perfetta eguaglianza e dell’assoluta libertà, conseguisse quella felicità che gli era dovuta[31].     

In questo periodo, considerando che siamo ad inizio ‘900, vi sono stati diversi attentati in diverse parti del mondo occidentale. Molti furono addebitati agli anarchici e molti di questi ingiustamente, ma per la stampa e per il potere serviva indicare un nemico e il male, per così fare un loro distinguo. Gli effetti della Triplice Alleanza[32] e il suo rinnovo portarono una ondata di contestazione tra gli irredentisti Triestini. Ma gli Anarchici Triestini hanno voluto prendere le distanze dal movimento, come si chiarisce nelle pagine di De Roberto quando Federico appunto dice: “Io non mi stupisco niente affatto che un Italiano, in Austria, abbia potuto commettere un atto simile, invece di imitare, per esempio, Oberdan[33]. Certo, vi sono ancora triestini, che sognano di riunirsi a questa nostra patria comune come la massima possibile felicità”[34].

                 Qual è “l’atroce profezia”? E’ andare oltre al terrorismo “anarchico”: la morte per la morte! Vi saranno uomini presi dal misticismo che uccideranno e si uccideranno per un solo scopo la Morte! “Liberare e liberarsi”! Vi saranno gli anarchici  biofobi che stermineranno ogni forma di vita e geoclasti   pronti ad annientare il pianeta Terra. E’ veramente terrificante questa “profezia di Federico”!

Solo l’espressione di Anna lo tira fuori: Che vi hanno fatto, perché diciate così?”[35]. E allora ritorna con lei sul “Sacro Monte” per scoprire l’amore di lei capace a riportarlo in quella normalità e avere così salva la vita. Non è una soluzione è una fine, un muro, un limite, come quello dipinto di cielo che scoprì Truman, e allora Autore e personaggio si identificano in questo dialogo, non si sa se sia la vita dell’autore o quella del personaggio. E’ la fine, il Nulla Assoluto: “Non protestare, non obbiettare, accettare quelle offerte, goderne, esultarne: così voleva la vita. (…)

«E che ne dice?»

«Ha detto a tuo padre che sarebbe molto felice se questo matrimonio sicombinasse… Io dapprima ero contraria, non te lo nascondo, e non te ne ho più parlato; ma se a te piace, se vuoi… »

«Mamma,» egli disse – prendendo la mano rugosa di lei «ho pensato a tutto: chiedi la mano di Anna per me…”[36]

E’ l’ultima metamorfosi del personaggio. Nella relazione epistolare tra Federico De Roberto e l’amante Pia Susanna Rosa Vigata si riscontra il fastidio che prova questa per il potere che ha la madre su lui e ne prova palesemente gelosia. Il quale non è capace di recidere il cordone ombelicale, pur scappando da Catania e ritornato a Roma nella domenica del 18 ottobre 1908 con la speranza di vincere il suo “stato di avvilimento intellettuale e abbattimento nervoso”, come scrisse alla madre, ha la speranza di continuare L’Imperio. Scriveva alla madre che doveva fare l’effetto di una bomba! Quella bomba che ha tentato di fare esplodere picchiando sul detonatore con una pietra messosi in ginocchio …

Di tutta questa storia a Noi Siciliani è rimasto Trinacrio, l’Ultimo Uzeda, il mostriciattolo chiuso in una bolla di vetro polverosa, con le sue tre gambette e il solo occhio pronto a fissarci, chiuso in qualche armadio, che aspetta la nostra presa di coscienza nel volere scoprire la storia, quella vera e non studiata a scuola.

              Il Ciclo degli Uzeda per me è stata un’ottima traccia di studio, dove ho imparato molte cose, per questo consiglio a quanti lo vogliono la lettura di questa magnifica Opera di Federico De Roberto.



[1] Personaggio del Candido di Voltaire.

[2] CandidoOvvero L’ottimismo di Voltaire traduzione di Riccardo Bacchelli – Club degli Editori – Giulio Einaudi editore SpA – Milano, 1977 – pagina 283

[3] ‘Zzorrait – Canzone testo e musica di Federico Doria

[4] Il suo nome reale è Gelbison (dall’arabo, significa: “monte dell’idolo”) in provincia di Salerno alto 1705 metri. Viene chiamato Monte Sacro perché in cima sorge il santuario della Madonna del Monte Sacro. Da dove si possono vedere nelle giornate con la giusta luce cromatica gran parte della Calabria, la Sicilia e le Isole Eolie a Sud, mentre verso Nord la Costiera Amalfitana, il Vesuvio., e il mar Ionio e il golfo di Taranto.

[5] Pagina 817

[6] PARTE SECONDA CAPITOLO NONO Pagina 543

[7] Pagina 814

[8] Ibidem

[9] Ibidem

[10] Dógali (Tedalì) si trova in Eritrea, a circa 20 km da Massaua.

[11] Augusto Salimbeni era stato catturato da Ras Alula il quale ha voluto che assistesse al massacro.

[12] Carlo Felice Nicolis conte di Robilant, nato a Torino  l’8 agosto 1826 morì a Londra il 17 ottobre 1888,  diplomatico, generale e politico. Ambasciatore in Austria (1871 – 1885); Ministro degli Esteri Governo Depretis dal 6 ottobre 1885 al 4 aprile 1887. E’ in tempo per il rinnovo della Triplice Alleanza (2 febbraio 1887) con la Germania e l’Austria.

[13] Pagina 816

[14] Ibidem

[15] Pagina 818

[16] Ibidem

[17] Ibidem

[18] Pagina 818

[19] Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello –Newton Compton editori s.r.l. Roma – 1993 – Pagina 155

[20] Pagina 818

[21] Ricordando così la verità dei pazzi, come quando nel 1973 il primo pentito di mafia, Leonardo Vitale fu prima dichiarato pazzo, durante il processo finito così con l’assoluzione degli imputati, e, poi fu ucciso, quando uscì dal manicomio criminale in cui fu rinchiuso per undici anni.

[22] Pagina 808

[23] Pagina 819

[24] Pagina 820

[25] Karl Robert Eduard von Hartmann nato a Berlino il 23 febbraio 1842, intraprende la carriera militare e causa un dolore reumatico al ginocchio abbandona e trascorre così l’esistenza su un divano dove incomincia a studiare filosofia, pubblica una sua opera Philosophie des Unbewussten (Filosofia dell’inconscio) che lo rende famoso, riceve inviti per insegnare in alcune università che rifiuta per mantenere la sua indipendenza. Si sposa per ben due volte, infine si ritira nei sobborghi di Berlino dove muore il  5 giugno 1906.

[26] Philipp Mainländer nato a Offenbach am Main il 5 ottobre 1841 da come lui stesso definì “lo stupro coniugale, dove  si impiccò nella sua residenza il 1º aprile 1876. La sua grande opera: Die Philosophie der Erlösung (Filosofia della Redenzione).

[27] Pagina 822

[28]PARTE PRIMA CAPITOLO OTTAVO Pagina 408

[29] metafisica

[30] Pagina 821

[31] Pagina 829; 830

[32] La Triplice alleanza fu un patto militare difensivo stipulato il 20 maggio 1882 a Vienna dagli imperi di Germania e Austria (che già formavano la Duplice Alleanza) e dal Regno d’Italia. In seguito il patto fu rinnovato altre quattro volte con la stipula di trattati specifici: nel 1887, 1891, 1902 e nel 1912.

[33] Guglielmo Oberdan, nato con il nome di Wilhelm Oberdank nato a Trieste il 1º febbraio 1858 fu accusato di avere gettato una bomba contro un corteo di veterani austriaci e condannato ed impiccato il 20 dicembre 1882. Fu definito subito dopo la sua morte un martire patriota dell’irredentismo italiano.

[34] Pagina 830

[35] Pagina 833

[36] Pagina 840



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