LA LINGUA DEROBERTIANA NEGLI UZEDA

IL CICLO DEGLI UZEDA

LA  LINGUA DEROBERTIANA

Di

Alphonse Doria

La lingua dell’opera ha le caratteristiche dell’introspezione del personaggio ed è vero nella condizione precisa della sensazione descritta nell’espressione linguistica, ma assolutamente non riesco a vedere la lingua pensata siciliana e ancor meno  la sintassi. Vittorio Spinazzola dalla sua critica Federico De Roberto e il Verismo asserisce:

“La stessa volontà di rispettare i caratteri del vero porta ad una seconda conseguenza, cioè che lo scrittore abbia sott’occhio i propri modelli. Di qui il cosiddetto « regionalismo » verista, e di qui la natura particolare dello stile, in quanto sarà necessario che i personaggi realisticamente ritratti parlino la loro lingua, non quella dell’autore o dei suoi lettori. Ma come raggiungere, in pratica, quest’ultimo obiettivo Sta bene evitare il ridicolo convenzionalismo di far parlare i popolani di Sicilia con accento toscano e modi classicheggianti, ma la soluzione di riprodurre il dialetto così com’esso è rischia di rendere l’opera incomprensibile al lettore.

 

Mentre il De Roberto propone questa alchimia nata dal compromesso di soddisfare le varie esigenze.
[1]“Fra i due partiti estremi, io tento, con l’esempio del Verga, una conciliazione; sul canovaccio della lingua conduco il ricamo dialettale, arrischio qua e là dei solecismi[2],
capovolgo certi periodi, traduco qualche volta alla lettera, piglio di peso alcuni modi di dire e riferisco molti proverbii, pur di conseguire questo benedetto colore locale non solo nel dialogo, ma nella descrizione e nella narrazione ancora”

Quello che non ho trovato nella parlata dei personaggi, considerando che il Siciliano è una lingua di pensiero e il De Roberto preso come punto di vista, l’interiore del personaggio, non ho trovato spesso il pensiero del siciliano. Forse preso dall’universalità del vero tema: l’amore e la morte. Tanto da considerare il siciliano un comunissimo dialetto e appellandolo in tale modo. Un esempio di solecismo lo troviamo proprio all’inizio del romanzo I Vicerè (Pagina 271) dove Giuseppe con il bambino in braccio, che culla, in seguito è così descritto: “Giuseppe, col bambino ancora in collo, era rimasto intontito, (…)” Ora in lingua italiana ha ben poco di significato, perché è una traduzione letterale dal Siciliano: “Peppi, cu l’addevu ancora ‘ncoddu, arristà amminchialiddutu, (…)” In Siciliano per dire in braccio utilizziamo spesso ‘nbrazza, per volere specificare che si ha addosso, come un capo d’abbigliamento, o come qualsiasi altra cosa, in questo caso un bambino, utilizziamo ‘ncoddu. Il De Roberto ha inserito questo errore morfologico appositamente, dando l’idea del pensiero di un bambino che diventa un carico addosso, ma cosa significa in italiano ancora in collo? Questo genere di errori è il più frequente dei nostri studenti, della gente comune e non solo, anche dei dottori. Basta perdere la concentrazione per un attimo e tradurre il pensiero siciliano letterariamente in italiano ed è fatta. Nelle nostre scuole un bambino viene subito deriso e preso in giro, e non viene considerato un errore linguistico, come si dovrebbe[3].

Mentre nel Verga abbiamo dei suoni, una costruzione del periodo e una sintassi sulla lingua siciliana, nel De Roberto vi è il quasi distacco, di tutto ciò. Non per questo manca di argomentare sulla parlata del personaggio.

La grande scrittrice siciliana Simonetta Agnello Hornby nell’Analisi della lingua della trilogia del De Roberto,   trova  una ragione ben precisa, che condivido, individualizzando nel complesso d’inferiorità da Siciliano dell’Autore verso i conquistatori Piemontesi:

“È evidente che nutriva un complesso d’inferiorità che gli impediva di usare il siciliano, ma non il dialetto dei “conquistatori”: un altro effetto deleterio del Risorgimento. Conosco molti siciliani che vivono nell’Italia del Nord e parlano con l’accento del luogo, ma nessun italiano che viva in Sicilia che non abbia mantenuto il proprio accento”.[4]

Sarà un complesso non esplicito ma che l’Autore in un certo modo fa dire al suo personaggio protagonista Teresa:

“In loro compagnia non adoperava mai il dialetto, parendole volgare; e siccome teneva a far sapere che era nata in Toscana, aspirava un poco la c; pronunziava ‘osa dice?Mi faccia ‘i piacere! ‘he bella stoffa! Per ciò l’accusavano d’affettazione, dietro le spalle; salvo poi, quando le stavano dinanzi, a far le amiche e prodigare elogi”[5]

Argomento che riprende nel L’Illusione Parte Terza Capitolo Terzo a pagina 197:

“Come a Palermo le era parso elegante parlar toscano, ora le piaceva mescolare ai propri discorsi parole, frasi, proverbi siciliani; e li spiegava all’amato, che li giudicava espressivi, efficacissimi, e la incitava a servirsi più spesso del dialetto.”

       Questa sua posizione quasi di sottomissione al conquistatore, per quanto riguarda la lingua è pure nell’evitare di specificare il ruolo dei liberali patrioti siciliani come indipendentisti appellandoli solo come quarantottisti o peggio ancora solo liberali, che significa ben poco. Eppure nel La Paura[6] De Roberto riesce linguisticamente a svilupparsi divenendo sperimentatore di un nuovo linguaggio letterario, anticipatore. Per l’occasione ho trovato un contributo abbastanza interessante di Andrea Camilleri:

“Due cose mi hanno molto aiutato all’inizio della mia scrittura: una è appunto la traduzione del Ciclope di Euripide, in cui Pirandello adopera due tipi di dialetto: il dialetto borghese, quello parlato di Ulisse, un soldato che ha viaggiato molto, uno che “ha fatto il militare a Cuneo”, come direbbe Totò, con un siciliano misto di parole; e poi il dialetto splendidamente contadino del Ciclope, che è una sorte di “massaro”. Questo mi ha insegnato la diversificazione. Non è vero quando mi dicono “tu ti inventi tante parole”; è solo che noi molte parole non le adoperiamo più, parole che appartengono magari alla cultura contadina. L’altro insegnamento che ho avuto risale a tanti anni fa, e mi è venuto dal racconto di Federico De Roberto, intitolato La Paura e devo dire qui che non l’avevo mai detto a nessuno. Tedesco una volta mi tirò in disparte e mi disse: “Ma tu La Paura di De Roberto la conosci?”. “Natale – risposi – è alla base.” Un racconto ambientato in una trincea del ’14, dove si trovano soldati provenienti da tutta Italia, in una situazione di estrema difficoltà, in cui ognuno può lasciarci la pelle, e dove tutti i loro sentimenti, sensazioni, reazioni di fronte a questo assoluto che è la morte, vengono espressi nei loro dialetti di origine. Questo mi ha dato il coraggio di tante cose, come me l’ha dato Gadda[7]”.[8]

Pertanto ne Il Ciclo degli Uzeda l’esigenza linguistica del regionalismo rimane solo sperimentale per De Roberto. Invece è di grande evidenza la sua sperimentazione linguistica, dando un valore dinamico per ogni personaggio sia per strato sociale, che per l’occasione della scena, nonché il luogo. Tramite il linguaggio riesce ad evidenziare il profilo psicologico del personaggio, interagendo l’Autore perfino ironizzandolo e caricaturandolo. Esempio: donna Ferdinanda: “uolgato, peruenne”; il cavaliere Eugenio:Quandocchesia , … appiacevolirono”;  il servo Baldassarre: “So Eccellenza sta bene e s’addiverte…. Un esempio anticipando l’analisi che seguirà ancora più dettagliata.

Ecco alcuni contatti linguistici con il Siciliano:

(Pagina 67): “Ella si atteggiava più rapidamente appena scorgeva da lontano quel gruppo dei picciotti –dei giovani- fra i quali c’era il principe…”; (Pagina 69): “Ti chiama la pupa… Dice che non gli fai l’effetto di una donna, ma d’una bambola.” pupa trova origine dal latino pupus che significa “bambino” per significare la grandezza, l’altezza; (Pagina 248):

“Un sabato, mentre ella leggeva accanto alla finestra, il cameriere, il cameriere le recò un biglietto di lui, piegato nel mezzo, con due parole scritte su a lapis; per congedo.” Significa a matita dal latino lapis haematitas che significa “pietra di ematite”, nella lingua siciliana è stato usato esclusivamente il termine lapis per indicare la matita; ( Enrico Sartana a Teresa -Pagina 252): “Io non so parlare, ma il mio bene saprò dirtelo, te lo dirò come si dice al nostro paese…”;  (Pagina 284): Una galanteria!… Una cosa mai vista!… Per questo sono signoroni!… Lasciate fare a loro!… E dodici piangenti!… Neanche al funerale del papa!…”. I pinagenti è una italianizzazione dei “chiangiulini” in siciliano sono coloro che per mestiere facevano di repuatore e reputatrice, (tradotto pure prefica in italiano) è chi si adopera in un antichissimo mestiere. Già si trova traccia nell’antico Egitto, citato pure da Omero e diffusissimo nell’Antica Roma, tanto che ne furono proibiti gli eccessi. Il termine reputatrice viene usato in particolar modo in Sicilia e trova origine dal participio répito del verbo répitari che significa “ripetere in maniera lamentevole, piangendo e rammaricandosi per qualcosa che si è perso”. Quindi queste donne, e a volte anche uomini, venivano ingaggiati sotto compenso per piangere sia a casa del defunto e sia durante il corteo funebre. Questo capitava spesso con defunti che avevano lasciato qualche eredità abbastanza consistente. Ormai questo mestiere si è completamente perduto. (Pagina 313): “… campieri …”. Dovrebbe tradursi in italiano singolare: campaio nel XVI secolo in toscana si adoperava per colui che si occupava di vigilare le terre, i beni, i campi, sia comuni che dei signori, veniva nominato dai vicari e dai priori con l’incarico preciso di denunciare a loro i vari malfattori e i danni commessi. Il campaio nel comune assume un ruolo fondamentale per una comunità che vive prettamente di agricoltura e allevamento animali. In Sicilia ha lo stesso significato solo che la sua nomina viene dall’autorità del luogo che è il signore, il feudatario. Giovanni Verga nella novella Jeli il pastore usa sia il termine campaio che campiere.  “E’proprio vero che dice Mara, l’ha detto pure don Gesualdo, il campiere, (…) Io sono Mara, la figlia di Massaro Agrippino, che è il campaio di tutti questi campi qui.”[9]

(Pagina 315): Manata di pazzi tutti quanti!…” Questa è l’espressione del monaco benedettino don Blasco, riferita ai propri nipoti Uzeda. In siciliano la manata (manciata) è un tot quantitativo di fili d’erba quanto una mano ne può tenere, oppure una manata di semenze. Più appropriato come termine siciliano era maniata che in questo caso si traduce in italiano (branco di pazzi). La maniata in siciliano è pure la traccia che scoprono ad esempio i cani da caccia della preda, ma in questo caso, quando è seguita da maniata di… significa quantità di… Il termine manata di… è usato molto raramente in lingua siciliana perché improprio. Ora la considerazione di don Blasco è un tranello per i critici letterari i quali arrivano ad affermare che gli Uzeda sono tutti psicopatici, come se in letteratura o nella vita vi fosse un personaggio o un essere vivente senza caratteristiche psicologiche.

Così affermò la docente Ganeri[10] Intervento svolto in occasione della presentazione del film “I Vicerè” di Roberto Faenza il 12 novembre 2007 durante il XII Congresso dell’Agiscuola: Gli Uzeda, discendenti dagli antichi «predoni» di Sicilia, non conoscono vie di mezzo: sono inetti o megalomani dominati dalla volontà di potenza. Sono tutti pazzi – come ricorda spesso la folla – vera protagonista, insieme ai tanti personaggi, del romanzo. In genere, le donne manifestano le loro “pazzie” nelle sfera privata e familiare, gli uomini, invece, in quella pubblica, ma non mancano svariate eccezioni alla regola. Oltre che matti, gli Uzeda sono anche cocciuti e anzi, al tempo stesso sono molto testardi e molto volubili, dato che cambiano radicalmente idea in modo inspiegabile e imprevedibile. Ma soprattutto: gli Uzeda sono cinici ed egoisti, non hanno valori e sono mossi sempre e solo dal tornaconto personale.”

Oltre allo sfondo psicologico del romanzo e dei personaggi stessi è proprio cadere nella trappola del De Roberto tale affermazione. A mio avviso è più giusto intravedere l’aspetto marcato, caratteristico, dei personaggi in una analisi più dettagliata senza lasciarsi trascinare nella generalizzazione. Ogni Uzeda è distinto e pazzo quanto ognuno di noi che li sta leggendo, solo che loro sono i protagonisti del loro tempo, epoca, e noi gli osservatori esterni. Solo uno di loro può affermare che sono una manata di pazzi, come, appunto don Blasco.

 

(I VICERE’ PARTE PRIMA CAPITOLO QUINTO Pagina 358)

Per verità, egli non toccava il podere, giudicando, come la madre, che le rose tisicuzze arrampicate sull’inferriata e sui muri della villa bastassero pel godimento della vista e dell’olfatto,

Un aggettivo usato di rado che ha origine antiche, è un diminutivo di tisico,  significa per similitudine, di poche forze, di poco spirito[11]. Proprio nel Decameron di Boccaccio leggiamo: [12]Andate, e sforzatevi di vivere; ché mi pare anzi che no che voi ci stiate a pigione, sì tisicuzzo e tristanzuol mi parete” Per significare di cagionevole salute. Mentre nella lingua italiana si usa di raro, ed antico, questo termine ha un suono ed un uso attuale nella lingua siciliana.

 

(I VICERE’ PARTE PRIMA CAPITOLO QUINTO Pagina 369)

“(…) don Ferrante, «cognominato Sconza, che nel siculo idioma suona il medesimo che Guasta»,  (…)Giacomo VI «cognominato Sciarra, che Rissa nel tosco idioma diremmo, (…)”

 

L’Autore, che riesce nella sua Arte della parola, usa il termine idioma[13] a volere significare il particolare della lingua propria di una nazione. Appunto, il vocabolario online Treccani riporta: Lingua propria e particolare di una nazione, specifica in seguito: “Con uso più tecnico, ma limitato ad alcuni linguisti, insieme di più «sistemi» (nel senso che questa parola ha nella terminologia saussuriana) in uso nell’ambito di una comunità storico-sociologica.” La specificità della lingua Siciliana, aggiunge suona a volere significare che questa specificità linguistica è una parlata del volgo. Questo perché, come già espresso prima, vi è questo complesso d’inferiorità di De Roberto nei confronti dei nuovi conquistatori della Sicilia.

Don Ferrante viene soprannominato, cognominato, Sconza. In siciliano viene da “scunzare”, è la terza persona singolare del tempo presente modo indicativo. “Scunzari” è composto dal sottrattivo “s”, proveniente da latino “ex” [14]e dal verbo “cunzari”. “Cunzari” viene dal latino volgare[15] “comptiare,” che significa “combinare, riunire, mettere a posto”. “Scunzari” è l’inverso di “cunzari”. Sconza è colui che guasta l’ordine prestabilito.

Poco dopo troviamo Giacomo VI «cognominato Sciarra, che Rissa nel tosco idioma diremmo.

        Nella storia reale troviamo un personaggio con tale cognome, un certo Sciarra Colonna[16], famoso per avere schiaffeggiato Papa Bonifacio VIII oltre ad averlo sequestrato e tenuto prigioniero nella stessa residenza del pontefice. Famoso questo fatto come “l’oltraggio di Anagni”. Questo dimostra che tale termine era in uso in diverse zone della penisola italica, tutt’oggi è un cognome molto diffuso in diverse regioni d’Italia.  Sciarra, sostantivo singolare femminile, come dice lo stesso Autore significa rissa.  Sciarra è pure la terza persona singolare del tempo presente modo indicativo del verbo sciarriari (in siciliano antico xarriari). Etimologicamente vi sono diverse teorie vertono quasi tutte al verbo scirari (strappare, lacerare). Dal persiano sciur che significa lite; dall’arabo scharr significa malvagità[17] e sciarare che appunto significa lacerare, vicinissimo al nostro siciliano scirari.   Quando due, o più persone, non vanno più d’accordo, marito e moglie si sono divisi, allora si dice in Lingua Siciliana che si sciarriaru, sunnu sciarriati. In questo caso sciarriati e scirati[18] assumono lo stesso significato. 

 

(I VICERE’ PARTE PRIMA CAPITOLO OTTAVO Pagina 420)

Donna Ferdinanda dopo la fine del governo borbonico  era diventata una versiera. Questo termine l’Autore lo adopera per indicare l’atteggiamento del personaggio, come dire una “indiavolata” o “alterata”.  Andando all’origine etimologico troviamo adversaria, termine adoperato nella Santa Inquisizione e dai predicatori che utilizzavano al maschile avversiere per indicare il nemico dell’umanità, il diavolo. Quinti la moglie del demonio era una aversaria. Termine utilizzato per indicare anche una donna di brutto aspetto e malvagia. In Siciliano diciamo: brutta di cori e di facci, oppure comu avi la facci avi lu cori. Termine adoperato anche per le streghe, per l’appunto spose del maligno, e per tanto donna Ferdinanda jttava gastimi, inveiva con maledizioni, De Roberto scrive: [19]“(…) andava fino a promettere una lampada a Santa Barbara perché questa saettasse tutti i suoi fulmini contro i traditori (…)”

Versiera viene chiamata pure una curva, quella a campana, è il risultato di una equazione del filosofo francese Fermet[20], il quale insieme a Cartesio, inizia la strada di rendere algebrica la geometria, lo scopo era di inquadrare tale curva. Ma Guido Grandi[21] nel 1718 nel  “Trattato del Galileo del moto naturalmente accelerato” ne fa mansione e non solo reclama che la curva fu ottenuta da lui stesso nell’opera “Quadratura circuli et hyperbolae”[22], dove chiarisce che il termine versiera proviene dal latino sinus versus, letteralmente si traduce seno verso, invece letterariamente curva con il seno contrario da qui, curva avversaria, nemica, verseria. Poi, nel 1748 ritroviamo la curva nelle “Istituzioni analitiche ad uso della gioventù italiana” di Maria Gaetana Agnesi[23]. Tanto basti perché la curva viene appellata dagli Inglesi  come witch of Agnesi[24]. Il tentativo di inquadrare una curva, sembra non dico diabolico, ma fino ad ora impossibile[25], perché uno strumento come la matematica algebrica non può essere altro che opera malefica, come il peccato originale, come il fuoco di Prometeo, discorso già approfondito[26].

 

(PARTE SECONDA CAPITOLO PRIMO Pagina 443)

“(…) loquace quanto una pica vecchia!”

 

De Roberto esprime questa similitudine: loquace quanto una pica vecchia! riferita allo zio duca D’Oragua, l’Onorevole tornato a Catania dalla capitale Torino ed era attorniano dai suoi ammiratori.  Lui così parlava in continuazione raccontando, a suo modo, le sedute in Parlamento. Anche se il termine pica esiste anche nella lingua italiana, in realtà questa similitudine è molto popolare in Sicilia, dove spesso si dice alle donne ciarliere che si mettono al centro dell’attenzione, in quanto la       pica è l’uccello gaza[27], in siciliano carcarazza, la quale gracchia così tanto da attirare l’attenzione.

(I VICERE’ PARTE SECONDA CAPITOLO QUARTO Pagina 475)

“Le bambine avrebbe dovuto lasciarle alla Missa inglese che il contino aveva preso appunto per questo!…”

 

A parlare è Pasqualino Riso, messo al centro dell’attenzione per la scappatina da parte del contino con donna Isabella. E le varie congetture assolutamente maschiliste che contengono questo capitolo nelle considerazioni sulla moglie, sicuramente non sono di De Roberto ma del personaggio. Ad attestare ciò oltre la forma dei periodi ma anche questa Missa inglese, non è altro che la storpiatura, “sicilianizzazione”, del Pasqualino Riso dell’appellativo di cortesia ad una “signorina” in lingua inglese: “miss” che il conte Raimondo aveva assunto come baby sitter  per le sue figlie. Non vi è corsivo, non è un discorso diretto chiuso tra virgolette del personaggio, è il lettore che diventa testimone, presente e ascolta il ciarlare di Pasqualino Riso, tramite la forma e le parole.

 

(I VICERE’ PARTE TERZA CAPITOLO NONO Pagina 671)

 

“Si rammenti quel Blasco Uzeda, “cognominato nella lingua siciliana Sciarra, che nel tosco idioma Rissa diremmo”; si rammenti di quell’altro Artale Uzeda, cognominato Sconza, cioè  Guasta!…”

 

Finalmente in chiusura del romanzo abbiamo una dichiarazione di De Roberto per bocca di Consalvo è lingua la nostra, non è una parlata, un dialetto, quando si considerano parole non della parlata locale ma che appartengono a tutto il nostro micro continente siciliano. Questa dignità già nelle pagine precedenti li ha enunciate, nel discorso al San Nicola di Consalvo: La nostra patria è anche quest’isola benedetta dal sole, dov’ebbe culla il dolce stil novo e donde partirono le più gloriose iniziative”[28]. Sicuramente Consalvo da buon falso retore ha fatto leva nel suo discorso all’orgoglio di appartenenza dei Siciliani, come fanno in maniera spudorata e vergognosa tutti i politicanti nelle campagne elettorali. Il punto è che già trova leva nella sua affermazione finale ricordando che la dignità di lingua non è solo nelle sue parole vive ma anche nel suo passato letterario con la Scuola Siciliana culla della lingua italiana. Come fu pure inizio del risorgimento (confederale e non unitario) con la Rivoluzione Indipendentista Siciliana iniziata il 12 gennaio del 1848, prima di ogni altro moto.

Le due parole sono “sciarra”  e “sconza”[29] già sono state già citate come nomignolo a Giacomo VI  cognominato Sciarra e don Ferrante detto Sconza.

           In realtà il Ciclo degli Uzeda è una continua sperimentazione linguista e letteraria.    

(I VICERE’ PARTE PRIMA CAPITOLO TERZO Pagina 331)

“ … ella salvò una copia del famoso Mugnòs, Teatro genologico di Sicilia, dove il capitolo «della famiglia de Vzeda» era il più lungo, occupando non meno di trenta grandi pagine. E quelle pagine secche e ingiallite, esalanti il tanfo delle vecchie carte, stampate con caratteri sgraziati ed oscuri, con ortografia fantastica; quella enfatica e bolsa prosa siculo-spagnola secentesca era la sua lettura prediletta, l’unico pascolo della sua immaginazione; il suo romanzo, il vangelo che le serviva a riconoscere gli eletti tra la turba, i veri nobili tra la plebe degli ignobili e la «gramigna» dei nobili falsi. «Chiaramente per tutti gli Hifpani genologifti fi fcorge, coi suoi felici fucceffi e con le occasioni debbite, qvale vna delle più antiche e fublimi famiglie delli regni di Valenza e d’Aragona la famiglia Vzeda, e per tvtto è uolgato effer ella fiffatamente cognominata dal nome, di vna fva terra detta la baronia di Vzeda, qvale alcanzò da qvei Re, in ricompenfo dei fvoi feruigi et indi coi Trionfi della militia nel Svpremo Cielo delle glorie militari peruenne.”

Sembra passare inosservato, visto le tesi degli studenti e le varie analisi critiche, scorgo nel De Roberto una qualità innovativa ed unica nel riuscire a creare il “falso letterario” ricostruendo sia il linguaggio che la dinamica del Mugnòs. Per trovare questa qualità e questo genere dobbiamo attendere fino a Camilleri che, nelle sue opere, ne da atto nella creazione di finti documenti letterari ricostruendo i vari linguaggi. Uno per tutti:  Il colore del sole[30] dove lo scrittore marinisi riesce a costruire il diario di Caravaggio in viaggio da Malta alla Sicilia nell’estate del 1607. Il romanzo è grande ed intrigante attirando il lettore in quel nero che avvolge la vita del grande pittore. Questa volta gli ingredienti del maestro Camilleri sono appunto il “falso letterario” riesce a costruire la prosa dell’epoca, sicuramente dopo una ricerca laboriosa. Il risultato è la credibilità dei fatti nella dinamica della storia.

“Qualche jorno appresso il miserabile Cavaliero di Giustizia disse frà Raffaele d’aver saputo da Aloysio che per dipingere lo teschio de lo San Gerolamo scrivente io averia mescolato a li colori anco un poco de lo mio seme naturale, dopo avere evocato lo dimonio. (…)”[31]

De Roberto è indiscutibilmente innovativo, anticipatore riesce nella sua prosa autenticamente falsa del Mugnòs a narrare la vicenda dei falsi Uzeda, intercalati nei personaggi storicamente autentici:

[32]«Seruendo egli,» la zitellona leggeva nel suo testo, «all’inuitto Re don Giaime nella gverra ch’hebbe col conte Vguetto di Narbona e coi Mori nell’acquifto di Maiorca, non n’hebbe remvneratione uervna, perilche ritiratofi dal Real feruiggio fenne andò coi fvoi al fuo Stato, et iui uedendo che il Re mandaua vna groffa fomma di denari alla Reina, con dvcento caualieri fvoi uaffalli in un celato paffo fi pvofe, et agvatando i real carriaggi gli tolse i denari e quanto di fopra portauano, mandando a dire al Re ch’era lvi obbligato di pagar prima i feruiggi perfonali, e doppo fodiffar gli appetiti della Reina: ma fdegnatofi di qvefte attioni il Re moffe contra di Blafco graue gverra, che per l’interpofitione di molti baroni piaceuolmente fi disftaccò, et ottenne la baronia di Almeira nonché poteftà di poter imporre alle fve Arme vn palo roffo d’Aragona.»

 

(PARTE TERZA CAPITOLO NONO Pagina 673)

 

«Si rammenta Vostra Eccellenza le letture del Mugnòs?…» continuava Consalvo. «Orbene, imaginiamo che quello storico sia ancora in vita e voglia mettere a giorno il suo Teatro genologico al capitolo: Della famiglia Uzeda. Che cosa direbbe? Direbbe press’a poco: “Don Gafpare Vzeda”,» egli pronunziò f la s e v la u, «”fu promosso ai maggiori carichi, in quel travolgimento del nostro Regno che passò dal Re don Francesco II di Borbone al Re don Vittorio Emanuele II di Savoia. Fu egli deputato al Nazional Parlamento di Torino, Fiorenza e Roma, et ultimamente dal Re don Umberto have stato sublimato con singolar dispaccio al carico di senatore. Don Consalvo de Uzeda, VIII prencipe di Francalanza, tenne poter di sindaco della sua città nativa, indi deputato al Parlamento di Roma et in prosieguo…”»

 

Straordinaria questa prova linguistica del “falso letterario”, qui Consalvo lo pronunzia con ironia alla zia ancora arrabbiata per la sua decisione di fare parte politicamente alla sinistra e di aversi messo in politica, chiarisce che nulla è cambiato, che è cambiato solo il re, e che il Mugnos avrebbe semplicemente continuato a scrivere nel suo Teatro genologico le cariche elettive come titoli nobiliari prima, vi è solo una costante per gli Uzeda: il Potere!

 

(I VICERE’ PARTE PRIMA CAPITOLO SETTIMO Pagina 395)

“Don Eugenio aveva già finito e spedito a Napoli la memoria su Massa Annunziata. Portava per titolo: «Intorno la convenienza — di essere intrapreso il discavo — della Sicola Pompei — ossivero Massa Annunziata —, vetusta terra mongibellese — sepolta nell’anno di grazia 1669 — dalle ignivome lave di quell’incendio vulcanico — con tutte le sue ricchezze che conteneva — memoria sommessa al Real Governo delle Due Sicilie — da don Eugenio Uzeda di Francalanza e Mirabella — Gentiluomo di Camera di Sua Maestà (con esercizio).» La sera, egli leggeva alla società la sua prosa, sulla brutta copia. C’erano espressioni di questo genere: «Quandocchesia nel 1669 tra le più terribili eruzioni la nostra vi cadendo annoverata… Dopoché appiacevolirono alquanto i tremuoti… A quale opera tuttosì in Pompei intentando si viene… Non mi s’impunti in superbia alle conghietture azzardarmi…» Erano il frutto di riforme grammaticali da lui studiate. Perché apostrofare soltanto gli articoli, i pronomi e le particelle? Egli scriveva: «Il flagell’ accuorav’i naturali… La lav’ avanzavas’ incontr’ a quel borgo…» Per dar più scioltezza al discorso diceva: «ne continuando» invece di «continuandone» ed anche «gli proporre» invece di «proporgli…» Don Cono soltanto gli dava retta, discutendo se solenne dovesse scriversi con una o con due elle; tutti gli altri voltavano le spalle a quella bestia che, dopo aver perduto per la sua bestialità due impieghi, aspettava d’esser nominato direttore degli scavi!”

La sperimentazione letteraria, questa volta intessuta sempre da quell’umorismo derobertiano, è, per l’appunto, tutta dell’Autore. Il quale riesce a dare autentica personalità a don Eugenio, tramite l’invenzione di questa nuova grammatica. E’ singolare che una persona riformuli il modo di scrivere, impone le proprie di regole, trascurando l’effetto comunicativo che possa sortire quella maniera di messaggio. A modo suo, don Eugenio, mostra la sua genialità, in realtà l’effetto letterario dell’Autore è di sottolineare la stoltezza del personaggio.

De Roberto è un autentico sperimentatore linguistico, come abbiamo già visto, al di fuori, o in aggiunta, della ricerca all’effetto verista, il quale Verga fu il vero ed unico maestro.     Tralasciando i suoni prettamente siciliani millenari, provenienti dall’antico berbero come ad esempio: -‘nto, ddu,  dda- eccetera, ma soprattutto come disse  Riccardo Ambrosini[33] sulla questione linguistica verghiana ne I Malavoglia: [34]“la caratterizzazione dialettale è chiara se si assume come codice la sintassi della lingua letteraria (…)”.  Tesi molto diffusa, ma con alcuni oppositori che lo considerano un linguaggio planitaliano[35] andando così, ad individualizzare elemento per elemento, parola dopo parola l’uso e la diffusione territoriale. A mio avviso, un modo poco adattabile ad un’opera letteraria come quella del Verga, perché in questo caso bisogna fare alcuni passi indietro ed osservare l’insieme, come in un quadro, notare, in questo modo, l’effetto linguistico di sicuro risultato siciliano. Verga, come Martoglio, Pirandello, eccetera, non fanno riferimento alle parlate locali, ma al patrimonio letterario della Lingua Siciliana. Chi si avvia alla analisi de I Malavoglia e non tiene conto di tale prospettiva è sicuramente deficitario. Tanto per fare un esempio, Luigi Russo scrive: [36]“(…) per rispetto del lessico siciliano [...] si parlerà sempre di lupini fradici, o di mele fradicie, nel senso di guaste e corrotte, mentre si sa, il fradicio di Toscana è tutt’altra cosa.”  A nulla valgono tutte le ricerche del termine “fradicio” utilizzato anche nelle altre regioni d’Italia e in altri romanzi, perché il Russo dice bene del termine “fradicio” analizzato nel contesto, fuori l’insieme dell’impianto linguistico del romanzo del Verga quel termine ha altro significato anche se dissimile poco.

Gli autori siciliani sono stati sempre degli sperimentatori linguistici. Ecco cosa risponde Vincenzo Consolo in un intervista a Grazia Casagrande in un Caffè Letterario del 15 gennaio 1999: “(CASAGRANDE)Un altro elemento presente nella sua scrittura è la ricerca sul linguaggio. Una vera sperimentazione linguistica.

(CONSOLO) Io appartengo proprio a questa linea sperimentale che è sempre convissuta nella letteratura italiana, insieme alla linea di tipo razionalistico illuministico. Ci sono questi due crinali che partono dalle origini della nostra letteratura, da Dante, Petrarca e giù giù sino ai giorni nostri, passando per scrittori della grandezza di Manzoni o di Verga, per arrivare fino a Gadda e a Pasolini. Ecco io appartengo proprio a questa linea sperimentale che opera sul linguaggio, sullo sconvolgimento del codice linguistico dato, per cui la scrittura non diventa più necessariamente comunicativa, ma si complica. Si complica con vari espedienti e con varie sperimentazioni, per arrivare alla polifonia di Gadda, o alla digressione pasoliniana, partendo sempre dalla grande rivoluzione stilistica che ha fatto Verga nei confronti dell’italiano. Verga è stato il primo sperimentatore della letteratura moderna ad aver irradiato di dialettalità quello che era il codice centrale, per intenderci il codice toscano che era stato ipotizzato e praticato da Manzoni. Mi muovo su questa linea sperimentale, cioè lungo la linea verghiana, gaddiana, pasoliniana.

(CASAGRANDE)La Sicilia è una terra che ha prodotto grandi scrittori. C’è un rapporto particolare tra questa terra e la letteratura?

(CONSOLO)La Sicilia è caratterizzata da una grande produzione letteraria che va da Verga passando per Pirandello, Vittorini, Brancati, fino a Tomasi di Lampedusa, Sciascia e sicuramente ho dimenticato molti altri nomi. Credo che questo dipenda da due fattori. Il primo è la complessa entità della Sicilia, frequentata fin dai tempi più remoti da diverse civiltà che, passando nell’isola o dominando l’isola, hanno lasciato la loro cultura, la loro lingua, oltre ai monumenti che conosciamo, dai Fenici in poi. L’altro motivo credo risieda nel fatto che la Sicilia ha sempre avuto una storia sociale non felice e questo ha portato molti a chiedersi la ragione di questa infelicità sociale e di cercarne una spiegazione attraverso la scrittura. La Sicilia non è una terra di grandi poeti, a parte la tradizione dialettale dei poeti sette-ottocenteschi, è soprattutto un’isola di narratori. Attraverso il romanzo si cerca di trovare le ragioni della complessità culturale e linguistica e anche le ragioni di questa perenne infelicità sociale.”[37]

                     In queste due risposte date alla bravissima Casagrande, si può notare come lo scrittore Consolo abbia un impedimento di carattere culturale nel definire la questione letteraria siciliana, rifugiandosi in schemi rimarcati che non corrispondono alla autenticità, considerando la sicilianità un male sociale. La peculiarità degli autori Siciliani è in questo fattore, in questa riserva mentale, dove la Sicilia diventa luogo della mente e la mente Patria, anzi Matria, riserva dove spaziare liberamente con il proprio pensiero. Solo con questo pregiudizio si può affermare erroneamente che la Sicilia non è terra di grandi poeti a parte la tradizione dialettale sette-ottocenteschi, è soprattutto un’isola di narratori. I poeti si esprimono con la loro lingua. I poeti Siciliani cantano in siciliano ancora oggi. Poi, vorrei proprio sapere come si può definire la lingua di un poeta come Giovanni Meli, dialetto? Con quale viltà culturale e pregiudizio? Di sicuro la Sicilia è quel micro continente dove la sua molteplicità di storia, cultura, biologia, crea quel fascino misterico unico al mondo.

Ritornando alla sperimentazione linguistica uno per tutto tra i più grandi sperimentatori linguistici fra gli autori Siciliani è sicuramente Antonio Pizzuto[38]. Il quale è riuscito a realizzare una autentica rivoluzione letteraria sia nel lessico che nella sintassi, grazie alla sua profonda conoscenza delle lingue classiche e moderne ed ad una fantastica mescolanza di esse, mai ovvio o banale è stato solo geniale creando una sorte di umorismo che scaturisce dall’uso della parola.

                Nel nostro caso, la lingua di don Eugenio e le sue riforme grammaticali, riguardante l’apostrofo: “Perché apostrofare soltanto gli articoli, i pronomi e le particelle?” ha un preciso termine di paragone, e riferimento,  con la Lingua Siciliana, dove l’apostrofo può anche essere adoperato fra avverbi e verbi, verbi e proposizioni e ancora in altri casi, creando una malleabilità, musicale e poetica, grazie ad un utilizzo frequente, sia nel parlato che nello scritto, dell’aferesi[39],  dell’apocope[40], dell’elisione[41] e dell’enclisi[42].

Dal mio punto di vista, questa sperimentazione linguistica non va presa troppo sul serio, ma, anzi, soprattutto in una chiave di lettura umoristica, insomma una stramberia, come quella di don Ferdinando al podere delle Ghiande.  [43]“Tutte le cose lette nei libri d’agricoltura aveva voluto provare: appurato, per esempio, che in ogni albero i rami possono fare da radici e le radici da rami, aveva preso a sperimentar la verità, schiantando gli aranci alti e rigogliosi per ripiantarli capovolti: ad uno ad uno tutti gli alberi erano morti.”  E poi ancora con la sperimentazione del moto perpetuo. Questa dell’albero capovolto, sicuramente in maniera involontaria, richiama la figura dell’albero cosmico nell’Induismo. Come cita la Katha-Upanishad[44] (II,6,1):   “Questo eterno Asvattha[45] in alto leva le radici e in basso volge i rami: esso è lo splendore, è il Divino (brahman). E’ anche chiamato ambrosia: su di esso si fondano tutti i mondi e nulla è più alto di lui”. Questo albero è venerato sia dagli hindu che dai buddhisti. Il loro credo vuole che chi si siede a terra a godere l’ombra dell’Asvattha eterno acquista il ricordo delle vite precedenti e la capacità di comprendere il linguaggio degli animali. Venerato come una divinità e visto come l’Albero dell’Illuminazione, dove appunto il principe Siddhârtha, dopo una lunga ascesi, divenne il Buddha, lo Svegliato.

 

(PARTE TERZA CAPITOLO QUINTO Pagina 605)

“Nel terzo centenario della canonizzazione della Beata Uzeda”.

 

De Roberto nella sua specifica arte della sperimentazione letteraria inventa la “leggenda della Beata Ximena”, un vero esempio di letteratura devozionale se pure Vittorio Spinazzola[46]  la trovò molto caricaturizzata e insolente: “(…) la tecnica dell’ostensione fintamente oggettiva di testimonianze scritte od orali si risolve in un trionfo della falsificazione letteraria, volta a smascherare la falsità costitutiva dei linguaggi piú accreditati, enfatizzandoli caricaturalmente. Di contro stanno le battute di dialogo scambiate tra i personaggi nei loro rapporti privati: il lettore non dubita che siano frutto d’invenzione, e tuttavia è portato a riconoscervi la mimesi fedele d’un modo di esprimersi tanto piú vitale quanto piú estraneo a ogni preoccupazione di ufficialità”.[47]

            Il professore Spinazzola soprattutto focalizza la sua attenzione nella narrazione della morte della “Santa”, così scrive nell’ultimo capitolo del “falso autentico” De Roberto: “Non era per anco spirata, che stormi d’augelletti scesero sul tetto della sua casa, posaronsi sul davanzale del suo verone, entrarono nella sua cameretta, quasi messaggeri celesti venuti ad incontrarne l’Anima bella. Soave profumo di rose e gelsomini e giacinti sprigionossi, come incenso, dal suo corpo; e un gran numero d’infermi che trassero a contemplarla l’ultima volta sul letto ferale guarirono miracolosamente soltanto per aver baciato il lembo della sua veste”[48]. Vorrei garantire al professore Spinazzola che gli agiografi nei secoli passati hanno scritto cose ancor più superlative e fantasmagoriche di quelle descritte dal De Roberto, anzi azzardo nel dire che per un contesto letterario di autentificazione del falso addirittura si sia trattenuto.

Continua nella sua Opera Spinazzola: “Uno scandaglio in profondità nella dimensione storica viene bensí attuato, talvolta, ma solo in via aneddotica e comunque attraverso espedienti indiretti, non dalla viva voce del narratore: le letture del Mugnòs  fatte da Ferdinanda al nipotino Consalvo, la storia del convento dei Benedettini raccontata da fra Carmelo ai novizi, la leggenda della Beata Ximena letta da Teresina su un libro di devozione. L’aura troppo spudoratamente apologetica o favolistica di questi racconti di secondo grado toglie loro ogni attendibilità storiografica: o meglio, ne fa dei documenti attendibilissimi sí, ma solo dello stato di obnubilamento stolto in cui De Roberto vede versare sempre le menti umane”[49] De Roberto in questi episodi non cerca di rivelare nessuna autenticità storica, ma assolutamente creare con la sua sperimentazione linguistica sarà il “falso autentico” che in seguito tanti altri grandi scrittori sperimentarono[50].  Invece rimane sempre sorprendente l’uso della lingua, l’uso arcaico dei verbi e delle parole. Poco interessa se la beata Ximena Uzeda abbia attinenza con la storia e se questo castello sia diventato meta di bisognosi nel XVI secolo, quello che importa per l’esigenza veristica del romanzo è l’attendibilità del falso documento. Nella sperimentazione derobertiana di questo opuscolo che nel romanzo è venuto alla  luce e stampato con grande pregio e cura, è un consueto riscontro nella letteratura agiografica. Corrisponde caratteristicamente a un testo monografico dedicato ad un “beato”, come era prassi nel XVI secolo concedere il culto pubblico e circoscritto in una precisa aria geografica ad alcuni “servi di Dio” o “benemeriti religiosi”, se pur la causa di canonizzazione non fosse stata a volte nemmeno istruita, questa fase veniva chiamata appunto “beatificazione”![51]  Questo genere di opuscoli molto presenti nel XVIII secolo. Sicuramente la bellezza letteraria in questo Quinto Capitolo sta appunto nell’uso di alcuni vocaboli come: “assistere alle loro turpitudini, Ximena facevasi usbergo sempre più saldo della sua fede”[52]. Adoperata come similitudine della fede questa lunga cappa di maglia ad anelli di ferro per proteggersi in battaglia dai colpi di arma da taglio, usata dal medioevo in poi, che si chiama usbergo, prepara il lettore anche all’idea della rigidità che imponeva la “beata” nel talamo. Tutto in contrapposizione dell’evento narrato nello “opuscolo”:  “ (…) la stessa penna arrossisce in narrandola”. Il marito una sera gli passò per la testa di portare la sua compagnia di ubriachi nella stanza da letto della Santa mentre dormiva, la poveretta si trovò tutta quella assemblea che sbavava  “atterrita dagli sguardi disonesti di quegli ubriachi, salta giù dal talamo, cadendo ai piedi d’una Sacra Imagine della SS. Vergine dell’Aiuto che teneva sempre con gran devozione al capezzale”[53]. Ed Ecco il miracolo, quelli si fecero il segno della croce ed andarono via mesti. Veramente l’umorismo derobertiano si alza letterariamente nelle espressioni della “stessa penna che arrossisce” e negli “sguardi disonesti degli ubriachi”, ma nonostante è funzionale perché avviene l’identificazione di chi ha scritto l’opuscolo in qualche prelato che mentre scrive immagina le scene della Santa dando ancor più attendibilità al documento.  Ed è attento anche al contenuto teologico dell’opuscolo: 1, lei stessa è strumento di redenzione; 2, pregava l’Onnipotente per il perdono dei traviati; 3, il conte di Motta Reale, ormai vecchio, cieco, bussa al portone del suo castello che non riconosce: “lacero, scalzo, sul cui viso stavano impresse le stimmate del vizio; un terribile male che è la giusta punizione dei dissoluti aveva corroso le sue fattezze”[54].

Il concetto positivista dello scrittore è in pieno contrasto con la concezione teologica dello scrittore dell’opuscolo sulla malattia. Per la legge mosaica il lebbroso era giusto tenere lontano dalla comunità in quanto contagioso[55], parallelamente si è sviluppato il concetto che sia un impuro e quindi condannato da Dio per qualche ragione. Il termine usato biblico era zara’at che significava “impurità”, cosicché il concetto di lebbra non era ristretto come lo è oggi, ma raggruppava diverse patologie  che producevano ulcere, piaghe e grandi degenerazioni dermatologiche, sgradevoli alla vista. Mentre la distinzione del lebbroso con abbigliamenti e segni vistosi, oltre all’allontanamento, passò pure in Europa, con il suo diffondersi della malattia nei secoli, si accentuò la maledizione sui lebbrosi, soprattutto nel medioevo. In Francia si arrivò ad immaginare una congiura dei lebbrosi di avvelenare i pozzi d’acqua. Tanto che Filippo V nel 1317 a Poitier emise un editto dove si accusavano di lesa maestà e così furono processati e torturati fin quando confessarono, così di seguito furono messi al rogo tutti quanti, compreso donne e bambini, in una “Grande caccia al lebbroso”. Quindi il concetto di questi segni patologici nel viso del vecchio conte, per il probabile clerico autore dell’opuscolo sulla beata Ximena, sono  stimmate del vizio, una giusta punizione per una vita dissoluta e non una patologia, come era concetto per gli uomini del XX secolo qual’era De Roberto. Il fine è sempre lo stesso: l’attendibilità del “falso letterario”.  Ecco la concezione lucida e modernissima per l’epoca che sfoggia De Roberto nell’articolo “La Medicina dello spirito”: “Gli uomini gravi, inchinevoli a sprezzare e deridere la cieca obbedienza che i loro più frivoli simili – e le loro dissimili frivolissime – volontariamente prestano alle leggi ed ai capricci della moda, sarebbero meno severi nei loro giudizii se pensassero che l’impegno di questa mutabile dea non è circoscritto al taglio degli abiti, alle fogge dei cappelli e al colore delle cravatte e dei guanti, ma che si estende a cose reputate molto più serie ed importanti, come sarebbero i sistemi filosofici e le forme artistiche, le dottrine politiche e le preparazioni medicinali, le ipotesi scientifiche ed i regimi alimentari. In letteratura, ad esempio, col progresso delle discipline fisiche e naturali sparvero i trattati e cominciarono le « fisiologie » ed i romanzi s’intitolarono « storie naturali » ; venuta più tardi la volta della scienza dell’anima, non si lesse più critica, ma « psicologia », ed alle narrazioni si sostituirono le « analisi psicologiche”[56]

Un parallelismo con Il Gattopardo del Tomasi su la Beata Corbera è che l’autore si è ispirato ad una sua reale antenata  Maria Crocifissa della Concezione Venerabili al secolo Isabella Tomasi (1645-1697), sorella dell’altro santo in famiglia Giuseppe Tomasi, dell’ordine dei Teatini. Il quale andò in visita nel 1955 a Palma di Montechiaro era ospite del barone Francesco Agnello a Siculiana, pochi chilometri distante. Giuseppe Tomasi di Lampedusa rimase colpito dalle lettere che il diavolo scriveva alla santa con una scrittura non decifrabile e che sostenne di sembrare a lui “un linguaggio greco e arabo” per alcune di quelle parole. Leggiamo: “(…) si edificava nel sentir raccontare per la ventesima volta dalla badessa gli ingenui miracoli della Beata, nel vedere com’essa gli additasse l’angolo del giardino malinconico dove la Santa monaca aveva sospeso nell’aria un grosso sasso il Demonio, innervosito dalla di lei austerità, le aveva scagliato addosso; si stupiva sempre vedendo incorniciate sulla parete di una cella le due lettere famose e indecifrabili, quella che la Beata Corbera aveva scritto al diavolo per convertirlo al bene e la risposta che esprimeva, pare, il rammarico di non poter obbedirle;”[57]

Nonostante la Beata Corbera è sempre un elemento di raffronto tra I Vicerè e Il Gattopardo in un punto di contatto tra i due romanzi inequivocabile.

Per così concludere sulla questione è importante tale atteggiamento: “E un giorno prese una carrozza e salì al Belvedere. Giacomo, vedendolo arrivare, gli disse, non nel dialetto familiare, ma in lingua: “Buon giorno, come stai?” e senza stendergli la mano”[58].

A riguardo voglio raccontare un aneddoto successomi qualche decina di anni fa, quando lavoravo nell’azienda di famiglia, precisamente nel punto vendita di elettrodomestici. Un giorno si è presentata una giovane signora venuta da poco dall’estero a reclamare il malfunzionamento della lavatrice appena acquistata, ora siccome era abbastanza insistosa mi è venuto spontaneo risponderle in lingua italiana che avrei fatto interessare l’assistenza del marchio di produzione dell’elettrodomestico. Questa per tutta risposta si ammutolì ed andò via. Prima di chiudere arrivò il padre il quale è venuto a protestare il fatto che io ho parlato in italiano alla figlia perché ho voluto prendere le distanze e trattarla così con superiorità. Il caso è specifico, l’uso del siciliano e dell’italiano come linguaggio può essere inteso come atteggiamento. La sottolineatura ha pure un altro dato, cioè mette in evidenza che il siciliano è adoperato anche dalle famiglie aristocratiche, questo dimostra che è lingua a tutti gli effetti anche se il nostro De Roberto la chiama “dialetto”[59]. Addirittura molte famiglie aristocratiche di Palermo conoscevano il frangese e non conoscevano l’italiano, così sia nell’ambiente domestico che fuori utilizzavano il siciliano.

Mentre nel – L’Imperio al Quinto Capitolo troviamo una mescolanza di lingue “regionali” che ci riportano per diretta alla novella “La Paura”, già citata precedentemente. E’ il racconto di alcuni soldati in trincea che vengono uccisi dai colpi dei cecchini nemici nel tentativo di raggiungere un posto divedetta. De Roberto fotografa una condizione tragica da lui non vissuta, in quanto non è stato in guerra, riuscendo a fare meditare il lettore sull’assurdità non solo di quel primo conflitto mondiale, ma della guerra come concetto, quando la paura crescente palpabile porta quei soldati da ogni parte dell’Italia, a protestare contro una condizione che disconoscono fino ad arrivare al suicidio finale. Questi soldati come gli uomini sotto la torre di Babele incominciano a parlare ognuno il proprio idioma di apparetenenza perché la torre dell’italinità politica/culturale/unitaria era crollata in quell’assurda condizione. Sotto i colpi fi fucile “Ta-pum![60], si accasciavano i poveri soldati. Una modernità di linguaggio, di letteratura che De Roberto riesce a creare soprattutto come opera d’arte. Ecco come finisce il racconto: Nel silenzio attonito, più greve, ovattato dai vapori, una voce annunziò: «L’ispession!… El scior maggior!…»[61] Afferrato allora il riluttante con le due mani per le spalle, Borga lo scosse forte, e gli gettò in faccia: «Di’, vôi, come l’è che femm?»[62] Improvvisamente gli occhi di Morana lampeggiarono, mentre il corpo si torceva per sottrarsi alla stretta: «Ecco… così…» E prima che nessuno avesse tempo di comprendere che cosa volesse dire, che cosa stesse per fare, corse lungo il fosso, fino al cunicolo, si chinò ad afferrare il moschetto, ne appoggiò al ciglio di fuoco il calcio, se ne appuntò la bocca sotto il mento, e trasse il colpo che fece schizzare il cervello contro i sacchi del parapetto”[63].

Mentre la prima edizione del – La Paura è stata nel 1921 sulla rivista “Novella” di Milano, scritta appena dopo la grande guerra, L’Imperio è stato scritto nel 1908, riatornato a Catania da Roma, pur se incompiuto pubblicato dalla Mondadori nel 1929. Quindi antcipa di gran lunga la storia di guerra.

La scrittrice Vanieri con la sua personalità  singolare ha un linguaggio molto emancipato nei confronti dei colleghi del giornale La Cronica sia nella dialettica:

“(…) vociferava più degli altri e teneva fronte a tutti: -(…) Capiss na gott, liù!…”[64]. E così via, la parlata della Vaniera è ricca di espressioni in piemontese intervallate con l’italiano. Il Ranaldi che aveva provato tanta attrazione per la scrittrice viene disincantato da questo suo caratettere disinvolto e non poco anche e “perfino l’ambiguità del linguaggio, la mescolanza del dialetto e della lingua, quell’abitudine di tradurre il vernacolo”[65]. Vi è un altro personaggio dello stesso capitolo Bernardino Grimaldi[66], che si esprime alcune volte in napoletano anche se calabrese: “Vatténne!… Statte zitta!… Addò sta? Che s’è fatto?…”[67].   La scena è impiantata in una casa di tolleranza con prostitute semi professioniste gestita da una certa donn’Agnese, i quali Grimaldi porta a Consalvo a vedere “roba nuova”  annunziate dal portiere. Grimaldi così invita Consalvo: “Vulimm’i a vedé?”[68]

Molto interessante è il discorso dei commensali onorevoli al ristorante sul barbarismo nella lingua italiana: “Stracotto con risotto… zampone di Modena con purée di spinaci…»

«Eh! Ah!… Ma che purée!… Italiano! Bisogna parlare italiano!…»

«O come si dice?» E Sonnino, nella sua qualità di toscano, suggerì: «Con passato di spinaci».

«No; allora io sto per l’avvenire dei fagioli!…» Una gran risata fece rivoltar tutta la clientela del caffè dalla parte degli onorevoli. E allora la discussione s’aggirò intorno alla lingua. Grimaldi voleva si riconoscesse la necessità di accettare i neologismi e i barbarismi d’uso comune; Sonnino era purista intransigente e non lasciava parlare il collega, lo riprendeva quasi ad ogni frase; «Dal punto di vista… ho constatato… ciò mi sorprende…». Ferella, come scrittore, approvava la severità filologica dell’onorevole; ma Consalvo si mise con Grimaldi, fece una gran sfuriata contro i pedanti che volevano mummificare la lingua, rendere più grande il divario fra il vivo linguaggio del popolo e quello dei letterati. Egli diceva che, secondo Spencer, le parole sono come i gettoni: il valore di questi e il significato di quelle dipendono dalla generale convenzione; e come Sonnino scoteva il capo, egli gli dette del “mandarino” e del “bonzo”[69].

             Un argomento che in breve tempo diviene politico tanto che il fascismo inpone l’autarchia linguistica. Nel 1940 diventa legge il “divieto dell’uso delle parole straniere nelle intestazioni delle ditte e nelle varie forme di pubblicità” perché tale uso era considerato anti-italiano, quindi è “opportuno combattere l’incosciente servilismo che si compiace di parole straniere anche quando sono facilmente e perfettamente sostituibili con chiari vocaboli italiani già in uso”. Per i trasgerssori era previsto l’arresto fino a 6 mesi o l’ammenda fino a 5 mila lire. Non avevano considerato di omettere dalla normativa le parole di origne della lingua latina e della lingua greca antica, creando un tale cortocircuito  che ha dovuto mitigare di gran lunga la legge dopo appena due anni della sua attuazione.  Il concetto della lingua è sempre aperto e una lingua che si ritiene viva sicuramente si arrichisce sempre di nuove parole. Ma d’altro canto diviene inconcepibile che una istituzione italiana (nel nostro caso) utilizzi dei termini stranieri per la legge o per dei moduli burocratici, quando un utilizzo dei termini della lingua nazionale in fondo rende molto più semplice la vita dei cittadini.

         Il Ciclo degli Uzeda termina con due neologismi inventati appositamente per l’atroce profezia di nuovi terroristi enunciata dal personaggio protagonista del Nono Capitolo, Federcio Ranaldi: E già mi par di sentirne ripetere i nomi. Perché odieranno la vita essi saranno chiamati biofobi; perché faranno saltare a pezzo a pezzo il mondo si chiameranno geoclasti[70].  Sono termini che già i giornalisti di oggi  richiamano nei loro articoli. L’Autore ha composto il termine biofobi[71] composto da bios (vita) e fobia dal greco phóbos, che significa “panico”, “paura”, per indicare repulsione e avversità; mentre il termine geoclasti con geo (pianeta Terra) e clasti plurale di clasto dal greco klao che significa “rompere”, “distruggere”.

Si conclude così il viaggio linguistico di questa magnifica Opera derobertiana.

 

 

 

 



[1] DE ROBERTO, Documenti umani, Milano, Galli 1896, pp. XVIII-XIX, cit in Spinazzola, V., Federico De Roberto e il Verismo, Milano, Feltrinelli, 1961 – Pagina. 13

[2] Per solecismo si intende un errore contro la purezza della lingua o contro la buona sintassi.

[3]  Tratto da “L’ACQUA ASCIUTTA” Relazione personale al  2° Concorso Lingua Siciliana  Teatro Centro Sociale di Siculiana, sabato 20 ottobre 2007 :

(…). Vincendo quel pregiudizio razziale che mortifica continuamente l’istintuale versione a parlare in siciliano dei ragazzi. Come asserisce il professore  Giovanni Ruffini nel suo libro Sicilia editore LaTerza – Bari 2006 – a pagina 106 “…la scuola è il luogo dove l’incontro tra siciliano e italiano può diventare “scontro”, talvolta con effetti traumatici. Le conseguenze saranno in tal caso molto negative sia sotto l’aspetto psicologico, sia nell’apprendimento della lingua italiana. (…) Bisogna invece favorire e valorizzare l’incontro tra il dialetto e la lingua. Sarà dunque necessario non mortificare – e anzi valorizzare – il patrimonio dialettale e al tempo stesso far maturare un uso corretto della lingua italiana, senza che ciò debba comportare l’abbandono del dialetto.  Ma cosa è effettivamente un errore?(…) bisogna convincersi del fatto che l’errore di lingua non deve essere considerato una trasgressione da punire con una «multa». L’errore è un fatto del tutto normale, inevitabile in chi sta apprendendo una lingua, che si può eliminare con un esercizio paziente, intelligente e – perché no – anche divertente. “ Anche per il luminare Ruffini la parola DIALETTO diventa un contenitore ripieno di significati significanti lingua.

[4] “I Viceré” di Federico De Roberto per la Fondazione Feltrinelli.

[5] (L’Illusione Parte Prima Capitolo Sesto pagina 67)

[6] Pubblicata sulla rivista «Novella» del 15 agosto 1921- E’ un racconto d’importanza di significati straordinari principalmente la messa a nudo dell’assurdità della guerra, di tutte le guerre, un vero atto di accusa.

[7] Carlo Emilio Gadda (Milano, 14 novembre 1893 – Roma, 21 maggio 1973. Solo nel 1946 sulla rivista Letteratura pubblica: Quer pasticciaccio brutto de via Merulana dove si riscontra una mescolanza di dialetti e di parlate un plurilinguismo di effetto eccezionale, già anticipato come abbiamo visto da De Roberto.

[8] Stilos quindicinale di lettere e arte – Anno II n°17 Martedì 15 agosto 2000 in abbinamento gratuito con LA SICILIA Torno nell’800 e cerco uno SCOMPARSO Intervista ad Andrea Camilleri di Salvatore Ferlita. Pagina 10

[9] VERGA  Tutte le novelle A cura di Concetta Greco Lanza – Newton Compton editori s.r.l. Roma Prima edizione Agosto 1994 – Jeli il pastore tratta dalla raccolta Vita dei Campi Pagina 100

 

[10] Margherita Ganeri insegna Letteratura italiana contemporanea presso l’Università della Calabria.

 

[11] Accademia della Crusca Dizionario  della Lingua Italiana IV edizione Tipografia Minerva 1877 Padova Volume V pagina 88

[12] Decameron di Giovanni Boccaccio  – A cura di Romualdo Marrone-  Biblioteca Economica Newton – Newton Compton editori s.r.l. – Roma 1995 –Seconda Giornata – Novella Decima Pagina 132

[13] idiòma s. m. [dal lat. idioma -mătis, gr. ἰδίωμα -ώματος «particolarità; peculiarità di stile; linguaggio», der. di ἴδιος «particolare»] (pl. -i). (Fonte:http://www.treccani.it/Portale/elements/categoriesItems.jsp?pathFile=/sites/default/BancaDati/Vocabolario_online/I/VIT_III_I_052076.xml  Visione presa il 10 marzo 2010 alle ore 18,18).

[14]Tradotto: “fuori di …”

[15] Il latino volgare si ben distingue dal latino classico. Il latino classico è la lingua della letteratura e della scuola, lingua intenda a riprodurre nel corso dei secoli (dall’III a. C. all’800 d.C.) le stesse forme grammaticali, lessicali e stilistiche. Il latino volgare inizia dall’VIII secolo a.C. ed è il latino comune parlato non solo dal popolo ma da tutti ed è all’origine delle lingue romanze, come (in parte) il siciliano. A differenza del latino classico il latino volgare è una lingua soggetta a mutare nel tempo e geograficamente insieme allo sviluppo della società che la parla. (Fonte: LA LINGUA ITALIANA di Maurizio Dardano e Pietro Trifone – Edizione Nuova Zanichelli SpA Bologna anno 1985 pagine 21 e 22). Le altre lingue

[16] Sciarra Colonna, nato Giacomo nel 1270  morto a Venezia nel 1329, principe e membro della famiglia Colonna, era fratello del cardinale Pietro Colonna e di Stefano il Vecchio, entrambi nipoti di Giacomo. Il padre Pietro era cognomi nato Sciarretta

[17] Francesco Pasqualino dotto filologo palermitano figlio di Michele Pasqualino nobile barese, cultore di lingue antiche e moderne diciottesimo secolo.

[18]In siciliano diviene pure un aggettivo per indicare la gente povera, nel senso figurato di chi indossa abiti laceri.

[19] Pagina 420

[20]Pierre de Fermat nato a Beaumont-de-Lomagne il 17 agosto 1601 morì a Castres il 12 gennaio 1665. Importantissimo matematico francese

[21] Luigi Guido Grandi, al secolo Francesco Lodovico Grandi nato a Cremona il primo ottobre 1671 morì a  Pisa il 4 luglio 1742, è stato un matematico e filosofo.

[22] Pisa, 1703 – la curva è il Tipo 63 nella classificazione di Newton.

[23] Maria Gaetana Agnesi nata a Milano il 16 maggio 1718 dove morì il 9 gennaio 1799.

[24] strega di Agnesi

[25]“Il Creato, l’Universo, il Mondo, ha una sua logica ed è quella che l’uomo tenta di comprendere nel micro e nel macro, rigorosamente misurando ogni cosa, visibile e a volte anche invisibile con la Fisica Virtuale. Per gli antichi pensatori greci bastava il rigore logico. Per lo scienziato Siciliano Archimede, non bastava solo riflettere, occorreva misurare. Molto si è perso di Archimede ucciso da un soldato romano in una delle tante colonizzazioni della nostra Sicilia nel 214 a.C.  E nella misurazione del Creato che si costata che il nostro metodo tecnico di misurazione è lineare e il Creato è circolare. A questo punto può sembrare facile rompere un cerchio e misurarlo linearmente, ma non sempre è fattibile. Ecco che vi è un divario tra un cerchio e il quadrato che lo iscrive, la differenza chiamata p greco è la pezza che l’uomo mette per rappezzare l’infinita distanza tra la Ragione e il Creato. Vi saranno altri modi di meditare sull’universo, come l’arte e il misticismo, ma la strada della matematica, della scienza a mio avviso non valicano l’Immanente. E’ l’uomo con la sua ragione che scruta il creato. Lo stesso uomo che nel rinascimento si è posto al suo cospetto e con Leonardo si nota l’eccelso della speculazione e la crisi della fede. Sta in questa diatriba il mistero dell’Uomo Vitruviano (chiamato così dall’architetto romano Marco Vitruvio che aveva studiato e divulgato le caratteristiche dell’opera) l’affannosa ricerca della quadratura del cerchio come LEONARDO stesso annotò (Windsor 12280r): “Archimede a data la quadratura d´ una figura latterata e no del cerchio, adunque archimenjde non quadra maj figura di lato curvo, e io quadro il cerchio,” Sta di certo che questa icona dell’arte e del pensiero stesso, mostra l’uomo punto di congiunzione tra il cerchio e il quadrato, tra il creato e la ragione, tra il trascendente e l’immanente, procedendo in un algoritmo.  Andando avanti di una serie infinita di passi, utilizzando il compasso e il righello, ci si avvicina rapidamente ad una quasi ideale corrispondenza di superfici tra il cerchio e il quadrato. Pertanto l’opera di Leonardo è  un disegno matematico. Anche se molti studi sono stati fatti sulle proporzioni del corpo umano.” (Tratto da un personale intervento nel convegno del 25 marzo 2006 al Centro Sociale di Siculiana, per INCONTRI CON L’AUTORE in occasione della presentazione del testo: LA QUADRATURA DEL CERCHIO Autore l’ingegnere Calogero Siracusa – Inserito in una nota dell’opera I CIELI DI CARTA – stesso autore –inedito – Anno 2006)

[26]I VICERE’ PARTE PRIMA CAPITOLO QUARTO Pagina 349

[27] Appartiene alla famiglia dei corvidi ed ha un piumaggio bianco nero  raggiunge il peso sino a 250 grammi ed una lunghezza di 45 centimetri. Conosciuta come la gazza ladra per la sua abitudine a nascondere oggetti luccicanti, famosa l’opera del Rossini che porta come titolo appunto LA GAZZA LADRA

[28] Pagina 667

[29] I VICERE’ PARTE PRIMA CAPITOLO QUINTO Pagina 369

[30] Il colore del sole di Andrea Camilleri Edizione Arnaldo Modadori Editore S.p.A. Milano 2007

[31] Il colore del sole di Andrea Camilleri Edizione Arnaldo Modadori Editore S.p.A. Milano 2007 Pagina 49

[32]Pagina 367 e 368 (I VICERE’ PARTE PRIMA CAPITOLO QUINTO)

[33] Riccardo Ambrosini nato nel 1926  morto a San Quirico a Moriano (Lucca), il 14 gennaio 2008, era un linguista italiano, docente  di Linguistica e Glottologia nell’ateneo pisano alla Facoltà di Lingue. Dal 1991, Ambrosini era presidente dell’Accademia lucchese di Scienze, Lettere e Arti. Ha lasciato studi sapientissimi in più di quattrocento opere edite.

[34]  Linguistica e letteratura, di Riccardo Ambrosini, Pisa : Athenaeum,  1977 Vol. II – Proposte di critica linguistica. La dialettalità del Verga – pagina7

[35] Diffuso su tutto il territorio.

[36] Giovanni Verga  di Luigi Russo – Edizione  LATERZA – Bari 1966 – La lingua di Verga – Pagina 280

[37] http://www.wuz.it/archivio/cafeletterario.it/interviste/consolo.html (Visione il 20 gennaio 2010 alle ore 20,31)

[38]Antonio Pizzuto nato a Palermo il 14 maggio 1893  e morto a Roma il 23 novembre 1976. Ha avuto una brillante carriera nell’ambito della pubblica amministrazione, fino ad assumere l’incarico di vicepresidente della Commissione internazionale di polizia criminale con sede a Vienna. Grande conoscitore sia delle lingue classiche antiche, fu traduttore dal greco e latino, sia  anche un profondo conoscitore delle lingue moderne come  inglese, francese e tedesco. Famosa la sua traduzione di Kant appunto dal tedesco. Grande scrittore con lo pseudonimo di Heis, pubblicò il suo primo romanzo, Sul ponte di Avignone(1938). Altre sue opere Signorina Rosina (1956); Si riparano bambole (1960) Ravenna (1962)  Il triciclo (1962) Paginette (1964) Sinfonia (1966) Natalizia (1966) fino all’ultima Giunte e Caldaie pubblicata postuma nel 2008.

[39] L’aferesi consiste nella caduta d’una vocale o d’una sillaba all’inizio di parola: “non” tradotto in Siciliano  “nun” con l’aferesi per necessità linguistica diventa ‘un.

[40] L’apòcope, detta anche troncamento, indica la caduta di uno o di più fonemi, una lettera o sillaba,  in finale di parola. Esempio:  suoi  in Siciliano soi oppure soni, con apocope abbiamo so’. Lo stesso nun può subire sia l’aferesi che l’apocope diventando ‘u’.

[41] L’elisione è la caduta di una vocale finale non accentata davanti a una parola che inizia per vocale, sicuramente apostrofando,  Esempio: mi dovete dare in Siciliano mi aviti a dari con l’elisione m’at’a dari.

[42] L’enclisi è quando una parola atona, monosillabica o al più bisillabica, si appoggia alla precedente formando un’unità prosodica.

[43] Pagina 395 e 396.

[44] Sono scritture sacre antiche che formano la parte finale dei Veda, composto in versi e prosa, scritto in Sanskrito, dall’Ottocento al Trecento A.C.

[45] Il ficus religiosa è una specie di baniano, semi sempre verde, le cui foglie decidue cadono nella stagione asciutta, alto fino a 30 m, con diametro del fusto fino a 3 m.

[46] Vittorio Spinazzola nato nel 1934  professore all’Università di Milano, saggista e critico letterario italiano

[47] Il romanzo antistorico di Vittorio Spinazzola Editori Riuniti – Roma, giugno 1990 – www.liberliber.it – Pagina 51

[48] Pagina 607

[49] Ibidem pagina 74

[50] Vedi: “LE SPERIMETAZIONI” Andrea Camilleri nel Il Sole nero

[51] Le cause di canonizzazione dei santi. Commento alla legislazione e guida pratica di Veraja Fabijan – Libreria Editrice Vaticana – 1990 – Pagina 90

[52] Pagina 605

[53] Pagina 605

[54] Pagina 606

[55] Levitico 13, 46 – Numeri 5, 2

[56] Pubblicato nel « Giornale d’Italia » il 3 aprile 1911

[57] IL GATTOPARDO  di Giuseppe Tomasi di Lampedusa – Arnoldo Mondadori  Editore S.p.A.  Milano 1995 pagina 107; 108

[58] I VICERE’ PARTE SECONDA CAPITOLO QUARTO Pagina 479

[59] Cosa s’intende per dialetto e cosa per lingua? Molto è stato scritto e argomentato su tale oggetto. Personalmente nel “Concorso Lingua Siciliana” da me istituito, nei due discorsi di apertura dei lavori della premiazione mi sono lungamente prodigato. (Potete leggerli sulle Antologia Siciliana I e II pubblicate sul blog:  http://alphonsedoria.wordpress.com/siculiana/ ). Premettendo che nei termini dialetto e lingua vi si nascondono pregiudizi politici e pertanto sono funzionali, perché in fondo il patrimonio culturale è ciò che sostiene realmente il loro concetto. Il siciliano ha a suo pro una grandissima biblioteca contenente opere dal 1200 a oggi, dall’altra parte, è stato concluso lo studio del Vocabolario siciliano (1977-2002) e la costituzione del Centro di studi filologici e linguistici siciliani (1952) questi da soli significano una forte attività istituzionale. Contro spesso mettono la diversità delle parlate in tutto il territorio siciliano, questo perché vi è una concezione della Sicilia erronea, perché bisogna mettere in considerazione la molteplicità storica culturale che ha vissuto, pertanto è facile riscontrare una unità nella lingua scritta e una diversità nel parlato. Per le varie differenze sono da considerarsi varietà standard. Talaltro come afferma il professore ordinario di Filosofia del linguaggio Università di Palermo Franco Lo Piparo nella sua Sicilia linguistica del 1987 – a pagina 782: “I modelli del buon siciliano vengono cercati tra la classe colta”. Quel siciliano che era parlato nelle famiglie aristocratiche che viene facilmente leggibile anche oggi nei suoi scritti più remoti e che veniva facilmente inteso in tutte le zone della Sicilia. Quel siciliano, anche se imbarbarito, è vivo e produce ancora cultura e letteratura. Simonetta Agnello Hornby ricorda sempre nelle sue conferenze che a casa parlavano in siciliano e non in italiano. Anche ne I Vicerè di De Roberto leggiamo che quando il principe Giacomo ha voluto prendere le distanze dal fratello conte Raimondo per le sue vicende amorose extraconiugali  “vedendolo arrivare, gli disse, non nel dialetto familiare, ma in lingua”. Vi sono moltissime testimonianze sul siciliano lingua del Popolo, in quanto parlata da tutti i Siciliani. :Al di là delle differenze e degli studi su i due termini: dialetto e lingua vi è il senso pratico della questione, cioè l’apporto del Siciliano con la sua forma mentis linguistica alla lingua istituzionale che è l’italiano. Il Siciliano, anche nella sua Terra, deve per forza maggiore comunicare in lingua italiana, sia nella scuola, sia nei tribunali, sia in tutto ciò che significa istituzione e potere politico, quindi un rapporto sbagliato rappresenta un andicap, una barriera non architettonica, ma altresì terribile, perché non permette di accedere ai diritti normali di un cittadino. Per togliere questa barriera occorre un buon rapporto sano tra “dialetto” e “lingua”, per meglio dire: “lingua siciliana” e “lingua italiana”. Non è sufficiente l’imposizione dello studio della lingua istituzionale, non è sufficiente il mezzo di diffusione anche se popolare come la televisione. La quale, dal mio punto di vista, riesce più facilmente a distruggere che a costruire il tessuto linguistico di un Popolo per la sua natura stessa di avere conseguito un percorso commerciale tralasciando quello culturale intrapreso al suo esordio. Per dialetto viene considerato un sistema linguistico con  l’uso limitato ad alcune zone geografiche, culturali e sociali ristrette pertanto divenuto secondario ad un sistema linguistico dominante. Abbiamo già visto che non è il caso del siciliano. “In senso generale, i primi sono eteronomi, parlati in classi sociali inferiori e sono caratteristici di società preindustriali, mentre i secondi sono autonomi, presenti in tutte le classi sociali e tipici di società industriali. Ma né l’eteronomia, né la determinazione diastratica sono interamente implementabili al siciliano. La dominazione di un altro sistema linguistico in Sicilia è un criterio difficilmente adoperabile visto che esprime una certa autonomia di una varietà sull’altra negando gli influssi opposti (si veda 1.1.2.). Anche l’ambito socialmente e culturalmente ristretto in cui si utilizzerebbe il dialetto, è da rifiutare. Il siciliano è utilizzato da persone istruite in ambiti socialmente e culturalmente “alti”: in provincia più laureati (8,2 %) che persone con la licenza media (4,9 %) pretendono utilizzare solo il siciliano negli uffici (LO PIPARO 1990: 246). Oltre ciò, questa opinione di limitazione culturale ignora la storia linguistica prima dell’Unità italiana e quella letteraria (come per esempio i drammi dialettali di Luigi Pirandello, ecc.).” Tratto da: I CONCETTI DI LINGUA E DIALETTO NE LA SICILIA LINGUISTICA OGGI del Prof. Dr. Giovanni RUFFINO e del  Prof. Dr. Serge VANVOLSEM Katholieke Universiteit Leuven Faculteit Letteren Departement Linguïstiek – Academiejaar 2002-2003 Pagina 18. (questa nota è stata tratta da una mia recensione al libro di Alessi Di Giovanni IL DIALETTO E LA, LINGUA del 21 dicembre 2012).

 

[60] Romanzi, novelle e saggi, – La Paura – Federico De Roberto – Milano, Mondadori, 1984

[61] “L’ispezione! Il signor maggiore!”

[62] “Di’, allora, com’è che facciamo?”

[63] Romanzi, novelle e saggi, – La Paura – Federico De Roberto – Milano, Mondadori, 1984

[64] Pagina 755- Traduzione: “Non capiscie niente, lui!…”

[65] Pagina 757

[66] Bernardino Grimaldi è nato a Catanzaro il 15 febbraio 1839 , morì a Roma con una grave malattia che lo veva reso afano il 16 marzo 1897, è stato Ministro dell’Agricoltura nel Governo Depretis VI, Ministro dell’Industria e Commercio del Regno d’Italia nei Governi Depretis VII, Depretis VIII, Depretis IX e Crispi I, Ministro delle Finanze nel Governo Crispi II e Ministro del Tesoro nel Governo Giolitti I.

[67] Pagina 761

[68] Pagina 762 – traduzione “Vogliamo andare  a vedere?”.

[69] Pagina 760

[70] Pagina 833

[71] Esiste biofobia termine in psicologia per indicare  paura causata dalla convivenza con esseri umani o animali.In questo caso è adoperato il termine come terrorista della vita, quindi distruttore.



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